Flip Project, un giardino in movimento

IL RECENTE PROGETTO NAPOLI, DI ENZO CUCCHI E GIANNI POLITI, OFFRE L’OCCASIONE PER RIPERCORRERE LA STORIA DI FLIP PROJECT E DELLA SUA ATTIVITÀ DECENNALE.

Case. Costruite con parole. Abitate da frasi. Per farti pensare alla pittura. Quella pittura che è ancora dalla parte dell’arte.
Case. Delineano frontiere. Nuova frontiera della pittura: pittori lungo la penisola, l’Italia.
Pittori abitano le coste, si muovono nell’entroterra, errando. È l’Italia abitata dalla pittura?
E che cosa dicono i pittori? Siamo pittori. Siamo buoni o cattivi?
Questa domanda si ammassa ripetutamente sul tetto di una delle case visibili (e leggibili) nel manifesto realizzato da Enzo Cucchi e Gianni Politi in occasione della mostra Napoli, organizzata da Flip Project.

 

Enzo Cucchi, Gianni Politi, Napoli, 2022, veduta dell'installazione, L'Arsenale di Napoli. Courtesy Flip Project
Enzo Cucchi, Gianni Politi, Napoli, 2022, veduta dell’installazione, L’Arsenale di Napoli. Courtesy Flip Project

 

Il manifesto, arrampicandosi lungo gli ingressi dei principali luoghi dell’arte contemporanea, formicola per le strade napoletane. E proprio qui, nella città partenopea, oltre dieci anni fa vedeva la luce Flip Project, un progetto nomade, ideato da Federico Del Vecchio e Ala Roushan durante un periodo di studio alla Städelschule di Francoforte sul Meno.
Flip avrebbe potuto germogliare e crescere a Mainhattan, il centro finanziario della Germania, invece ha preferito mettere radici in un luogo che guardasse in faccia il Mediterraneo. Quel mare in perenne movimento, che porta insieme alla sua brezza l’idea del viaggio e degli scambi, capace di custodire e avvicinare le differenze, senza smarrirle nell’immensità oceanica.
Con la recente apertura di un nuovo spazio espositivo, ospitato in una cappella gentilizia degli anni cinquanta, Flip Project ha confermato la sua attitudine nomadica. Sin dal titolo della mostra inaugurale, Our slice of time together, emerge il punto nodale su cui si basa il progetto, vale a dire il rapporto con la comunità. Una comunità che cresce e si trasforma, sottraendosi a pratiche di identificazione e generando una mappa relazionale che si muove nello spazio e nel tempo.

 

una veduta della mostra Our slice of time together, 2021-2022, Flip Project, Napoli. Foto Amedeo Benestante. Courtesy Flip Project
una veduta della mostra Our slice of time together, 2021-2022, Flip Project, Napoli. Foto Amedeo Benestante. Courtesy Flip Project

 

Dalle passeggiate notturne nei quartieri spagnoli di Napoli in compagnia di Michael Dean, il tragitto attraversa l’Europa per arrivare fino alla Kaapelitehdas – Cable Factory di Helsinki, una fabbrica utilizzata tra la seconda guerra mondiale e gli anni cinquanta per la produzione di cavi, divenuta in seguito sede della Nokia negli anni ’90 e infine riconvertita in centro culturale negli anni zero, in cui Del Vecchio ha trascorso un periodo di residenza insieme a Giulia Cenci. Seguendo le effimere impronte lasciate sulla sabbia da Jorge Peris e dal suo cane Ethra, il viaggio si spinge fino alle sponde del lago El Palmar, vicino Valencia, di cui rimane memoria tramite una serie di pezzi di marmo raccolti e lavorati dall’artista in studio con olio.
Entrati a far parte dell’archivio/collezione di Flip, questi oggetti si sono uniti ad altri nel mappare e raccontare il nomadismo e le relazioni che hanno animato lo spazio nel corso degli anni. Questo archivio è stato ospitato nel 2020, in occasione di CONTEMPORANEAMENTE – Appuntamento con l’Arte Contemporanea, nella Galleria Umberto Di Marino all’interno del progetto The uncertainty of space-time: a constellation of parallel worlds through the obsession of collecting, curato da Enzo Di Marino insieme a Federico Del Vecchio. In un momento di chiusura forzata dei luoghi istituzionali dedicati all’arte e alla cultura, il progetto esprimeva l’urgente necessità di una ridefinizione individuale, collettiva e sistematica, basata sul confronto costante fra le differenti parti coinvolte. Cosicché, attraverso una collezione che dalla pittura sconfinava nella scultura, dal disegno passava alla fotografia, il progetto tracciava una geografia nata in assenza di punti di riferimento stabili, in costante movimento e trasformazione, avvicinando luoghi distanti fra di loro e creando punti di contatto, quasi come un polpo che mutando forma si sposta con elasticità fra rocce e scogli, esplorando territori e facendo presa con i suoi cangianti tentacoli.

 

una veduta della mostra The uncertainty of space-time: a constellation of parallel worlds  through the obsession of collecting, 2020, Galleria Umberto Di Marino, Napoli. Foto Danilo Donzelli. Courtesy Flip Project
una veduta della mostra The uncertainty of space-time: a constellation of parallel worlds through the obsession of collecting, 2020, Galleria Umberto Di Marino, Napoli. Foto Danilo Donzelli. Courtesy Flip Project

 

Proprio questa capacità di adattamento rispecchia le origini partenopee di Flip: «Napoli è un essere mutante sia dal punto di vista morfologico-geologico, viviamo praticamente in un complesso intreccio vulcanico, ma anche nella sua struttura quotidiana, il napoletano si adatta, si inventa, si trasforma».1
All’immagine del polpo, infatti, ha pensato Helena Hladilová in occasione della sua personale nello spazio, Hafgufa, associando l’animale alla città e presentando una serie di sculture, bassorilievi in marmi policromi con velature di colore ad acquerello, legate all’iconografia della piovra. Somigliano a dei reperti zoologici quei grandi tentacoli recisi, mentre ventose ravvicinate appaiono schiacciate su superfici circolari, come se osservando i fondali marini dall’oblò del Nautilus a un tratto un enorme Kraken ricoprisse interamente con il suo corpo il sottomarino del capitano Nemo.
All’interno della cappella gentilizia emerge dunque prepotente l’immagine del mare, della navigazione verso abissi sconosciuti. Dalla solida terra si passa al mare mutevole.

 

Helena Hladilová, Hafgufa, dettaglio, 2022, Flip Project, Napoli. Foto Amedeo Benestante
Helena Hladilová, Hafgufa, dettaglio, 2022, Flip Project, Napoli. Foto Amedeo Benestante

 

Si potrebbe dire che l’avventura di Flip in relazione al fuori si configuri tramite due sguardi, uno rivolto all’esterno, che valica le Alpi, l’altro rivolto all’interno, orientato verso un inatteso viaggio sul posto. Infatti, come affermava Gilles Deleuze nel 1972 durante un convegno, «Il nomade, però, non è solo necessariamente uno che si muove: fa dei viaggi sul posto, in intensità, e anche storicamente i nomadi non sono quelli che si spostano come gli emigranti ma, al contrario, non si spostano e si mettono a vivere da nomadi per restare allo stesso posto sfuggendo ai codici».2
Lo spirito di Flip è contrario alle forme monadiche e per questo motivo cerca di attirare a sé il passante, nel tentativo di instaurare un dialogo in quanto, come scrive Francesco Careri, «la soggettività esiste soltanto nella molteplicità delle storie umane, dei singoli e dei gruppi».3 Le attività che si sono susseguite nel corso degli anni hanno coinvolto figure disparate, dagli artisti ai poeti, dai curatori ai performer, dagli scrittori ai musicisti, in breve ogni persona che nutrisse un interesse verso l’arte contemporanea.
Con il trascorrere del tempo, anche lo spazio è mutato. Nei primi tempi l’artist-run space ha avuto sede in un palazzo del 1690, Palazzo Ruffo di Castelcicala, lo stesso nel quale vivevano i genitori di Federico Del Vecchio.
A un certo punto è stato necessario abbandonare uno degli appartamenti e, non avendo più a disposizione uno spazio per organizzare delle mostre, la programmazione di Flip si è incentrata su eventi di breve durata, come talk, screening, lecture, performance. Tutto ciò avveniva in un’atmosfera informale, intima, quasi domestica. «Molti dicevano che i miei genitori erano quasi parte del progetto perché mia madre cucinava per tutti, mentre mio padre ha collaborato in alcuni progetti come performer», racconta il fondatore dello spazio.
È il caso della performance EURO, realizzata negli Archivi storici del Banco di Napoli e pensata come evento parallelo alla mostra di Diego Tonus Fragments of a Conversation with a Counterfeiter (2019), curata da Huib Haye van der Werf e vincitrice della terza edizione dell’Italian Council (2018), di cui l’artista ha discusso in un talk tenutosi negli spazi di Flip di via Foria, a Napoli. Infatti, a partire da un omonimo gruppo di opere, Tonus indagava la trasformazione e la trasposizione del valore, interrogando la valorizzazione del tempo e dello spazio in una fase di crisi.
La performance, invece, si è concentrata sulle differenti pronunce e sui relativi significati della parola “Euro” e ha avuto luogo, oltre che negli spazi della Fondazione Banco di Napoli – un archivio contenente la storia della banca moderna e documenti come le prime ricevute di pagamento e contratti d’artista fra cui quelli relativi alle vendite di opere di Caravaggio e altri artisti  –, anche nella città di Maastricht, in particolare nella piazza commemorativa del Trattato di Maastricht e della nascita dell’Euro, ossia Square 1992. L’azione, infatti, sottolineava le stratificate e possibili declinazioni del termine, creato originariamente come terreno comune e unico per le Nazioni Europee.

 

Diego Tonus, Euro, 2019, performance, Fondazione ilCartastorie – Archivi Storici del Banco di Napoli. Foto Danilo Donzelli. Courtesy Flip Project
Diego Tonus, Euro, 2019, performance, Fondazione ilCartastorie – Archivi Storici del Banco di Napoli. Foto Danilo Donzelli. Courtesy Flip Project

 

Diego Tonus è solo uno fra gli artisti coinvolti negli eventi di Flip, accanto a lui figurano Danilo Correale, Ištvan Išt Huzjan, Camilla Salvatore, solo per citarne alcuni, che hanno preso parte a una serie di talk in cui hanno presentato le rispettive ricerche e progetti.
In seguito, tuttavia, è stato necessario uno spazio fisico per organizzare delle mostre e formalizzare le relazioni instaurate. Infatti, a partire dalle discussioni e collaborazioni si genera spesso un flusso, afferma il fondatore dello spazio, che viene accolto e formalizzato nei progetti realizzati, facendo sì che Flip non segua una struttura inamovibile e definita una volta per tutte. Di conseguenza, la spontaneità con cui si manifestano situazioni diverse si configura come uno degli elementi su cui fa leva il progetto.
Quali sono, difatti, gli effetti che ha prodotto il carattere aperto e propositivo di Flip Project? Una rete di collaborazioni e scambi creativi, legati alle questioni dell’arte contemporanea, in grado di attivare nuove dinamiche e contaminazioni culturali. Fra i vari obiettivi dello spazio vi è proprio la condivisione, una comunanza che si colloca al di là di ogni nazionalità e istituzione.
In ogni caso, il nomadismo che connota Flip Project non è una condizione originaria e a priori, ma risponde a uno stimolo esterno, dettato dalle condizioni limitanti e restrittive che caratterizzano il panorama culturale italiano. Sorgono quindi degli interrogativi.
Nel momento in cui l’habitat di partenza non fornisca le risorse e gli strumenti necessari alla realizzazione di un progetto, quali alternative si prospettano se non la ricerca di tali mezzi in un altro luogo?
Lo spostamento costante, e dunque la creazione di uno scenario mobile, uniti al desiderio di indipendenza, possono generare una maggiore libertà, freschezza e autenticità rispetto alle idee, ai contenuti, alle proposte, agli obiettivi di un artist-run space?
Sono domande che non posseggono una risposta definitiva e certa. Tuttavia, sarebbe riduttivo pensare che essere nomade corrisponda al semplice atto del viaggiare. Significherebbe equiparare il nomade a un turista. Ciò che invece dovrebbe costituire un termine di discrimine fra le due modalità è la coscienza critica, la consapevolezza con cui si dà avvio al proprio viaggio.
Però, l’abbandono dei luoghi da cui si proviene, soprattutto se si tratta di luoghi amati, non potrebbe essere sintomatico di una forma di sfiducia nei confronti della polis?
Quando si parte per ricercare i mezzi che potranno permettere la realizzazione di un progetto, probabilmente dentro di sé si ha il presentimento che il viaggio non sarà di sola andata. Che ci sarà possibilmente un ritorno. E la storia di Flip testimonia proprio ciò.
Difatti, se si osserva la sua esperienza decennale, emerge una progettualità nomade in grado di intrecciare collaborazioni d’oltreoceano, relazioni di carattere internazionale. Eppure è Napoli il luogo in cui Flip tenta di costruire una realtà positiva, è la città a cui cerca di dare il proprio contributo in termini artistico-culturali, attraverso mostre, eventi e pubblicazioni, che nascono a partire dal dialogo e coinvolgono altre città, altri luoghi, anche i meno prevedibili.
Come quando, nel 2008, lo spazio ha collaborato con lo storico negozio di frutta appartenente a Ciro Romeo, dislocato nel quartiere Borgo dei Vergini all’interno del Rione Sanità. Una collaborazione nata proprio perché il negozio di Ciro rappresentava l’idea di un’assenza di confini, di barriere, un continuo flusso di esperienze, di vecchie e nuove facce che vanno e vengono. L’atrio del palazzo e gli spazi esterni si trasformavano allora in una sorta di “arena”, in cui gli abitanti si mimetizzavano fra gli estranei. In quella occasione Marco Pio Mucci ha presentato tra le cassette della frutta una serie di magliette personalizzate e una selezione musicale, attirando in questo modo passanti e curiosi.

 

una veduta della mostra Romeo, 2018, Ciro Romeo Frutta, Napoli. Foto Amedeo Benestante. Courtesy Flip Project
una veduta della mostra Romeo, 2018, Ciro Romeo Frutta, Napoli. Foto Amedeo Benestante. Courtesy Flip Project

 

Questa capacità di creare connessioni e legami deriva proprio dal fatto che Flip si muove, per poi tornare indietro a intervalli regolari. Ripercorrendo a ritroso le sue attività, ciò si evince in maniera chiara.
Nel 2011 una prima esperienza si è svolta a Toronto con la mostra lifejacket under seat, che interrogava la vita degli oggetti artistici, suscettibili al movimento costante e ai cambiamenti repentini tipici del presente, attraverso le opere di Alfred Boman, Annabel Chin, Simone Daveport, Federico Del Vecchio, Giulio Delvè, Luca Francesconi, Hannes Michanek, Jacopo Miliani, Othmar Farré, Pennacchio Argentato, Sarah Rose, accompagnate dai testi di Giorgio Giusti e Matthew Gregory.
L’anno successivo viene avviata nella stessa città una collaborazione con Art Metropole, un centro di arti visive non profit fondato nel 1974 dal collettivo General Idea. La mostra ospitata, How to make a delicious tea II, si sviluppava come continuazione del progetto omonimo presentato nel 2011 a Torino, nella sezione Lido di Artissima 18. Nella fiera torinese erano coinvolti Eloise Hawser, Martin Soto Climent, Patrick Tuttofuoco, Per-Oskar Len (protagonisti anche della seconda parte del progetto in Canada, a cui si sono si sono uniti Lena Henke e Andrea Sala) e, infine, Sarah Rose con un video screening ospitato da Artissima Social Club. A Toronto, invece, la mostra proponeva una riflessione sulla produzione artistica intesa come insieme di processi stratificati e impercettibili, indagando la questione dell’autenticità attraverso la ristampa su seta di un’opera già esistente.

 

una veduta della mostra Flip: how to make a delicious tea II, 2012, Art Metropole, Toronto. Courtesy Flip Project
una veduta della mostra Flip: how to make a delicious tea II, 2012, Art Metropole, Toronto. Courtesy Flip Project

 

Eppure le attività di Flip non si sono svolte solo al di là dell’oceano. Diverse sono state infatti le collaborazioni, le mostre e gli eventi in cui lo spazio è stato coinvolto all’interno del territorio italiano. Un esempio è Baitball 01, una collettiva tenutasi negli spazi di Palazzo San Giuseppe a Polignano a Mare nel 2020, organizzata da Like a Little Disaster e PANE project.
Primo episodio di una serie periodica e nomadica dedicata alle pratiche collaborative nell’arte contemporanea, Baitball 01 è stato infatti curato collettivamente da sedici tra gallerie, project space, artist-run space, collettivi e curatori indipendenti. Per l’occasione Flip Project ha presentato il progetto ongoing di cui si è accennato in precedenza, How to Make a Delicious Tea, che ha incluso i lavori di Eloise Hawser, Martin Soto Climent, Patrick Tuttofuoco, PerOskar Leu, Lena Henke, Andrea Sala, Philipp Timischl e Urara Tsuchiya, accompagnati dai testi di Denise Ryner, Rosemary Heather e Dalia Maini.
L’obiettivo del progetto era quello di riflettere su una dinamica di “leggerezza” in relazione ai limiti economici, produttivi e logistici, in un presente caratterizzato dal legame con la rivoluzione digitale di Internet e dalla eccessiva proliferazione e produzione di mostre.
Spostandosi invece indietro nel tempo e nello spazio, in particolare andando verso la Puglia, nel 2014 a Bari la Sala Murat ha ospitato Display – Mediating landscape che attraverso i lavori di diversi artisti, scrittori e curatori, collocati su un display in legno, indagava i metodi di presentazione e le relazioni tra le opere e il contesto spaziale, proponendo nuove modalità espositive e di organizzazione dello spazio, mentre i processi di produzione, esposizione e impostazione del lavoro venivano posti al centro di un’analisi basata su riflessioni e scritti di giovani curatori intorno alla nozione di display, in rapporto ai concetti di prossimità, adiacenza, spazio, forma e oggettualità.

 

una veduta della mostra Display: mediating landscape, 2014, Sala Murat, Bari. Foto Diana Cimino Cocco. Courtesy Flip Project
una veduta della mostra Display: mediating landscape, 2014, Sala Murat, Bari. Foto Diana Cimino Cocco. Courtesy Flip Project

 

A partire dall’osservazione di queste esperienze, si può notare che il fare non è fine a se stesso, ma cerca di riflettere su delle situazioni e, nei limiti del possibile, di produrre degli effetti sulla realtà circostante. Il fatto che gli artist-run spaces abbiano un potenziale e siano in grado di generare valore – in termini artistici, sociali, economici – è un fenomeno osservato da diversi anni, spiega Del Vecchio in una conversazione. Descrive, infatti, come ciò sia stato anche oggetto di una ricerca commissionata e pubblicata da Common Practice, un gruppo di sostegno interessato alla ricognizione e alla promozione del settore delle arti visive contemporanee su piccola scala a Londra.
Lo studio, a cura di Sarah Thelwall, ha evidenziato il fatto che gli spazi indipendenti abbiano la capacità di generare un’ampia quantità di valore e svolgano un ruolo cruciale sia a livello culturale sia nel più ampio sistema dell’arte.4 Tuttavia, difficilmente le piccole organizzazioni riescono a beneficiare direttamente del valore che creano e spesso l’unico rendimento che si ottiene da questo tipo di investimento avviene nel momento della produzione e si traduce in termini di visibilità e reputazione. Anche questo, però, limitatamente al fatto che la pubblicazione o la mostra siano interessanti e di alta qualità.
Del Vecchio prosegue citando un’intervista a Maria Lind5 in cui si legge che, affinché questo valore venga riconosciuto, sono necessari in genere dieci o quindici anni dopo gli investimenti e, dal momento che le piccole organizzazioni lavorano con artisti considerati non ancora affermati e sviluppano nuovi modelli educativi e curatoriali, i rischi da assumersi sono molti. Infatti, uno dei problemi principali consiste nel fatto che i beneficiari effettivi del valore generatosi da questo tipo di attività non siano le piccole organizzazioni, bensì il settore commerciale da un lato e le istituzioni mainstream dall’altro. Così, pur essendo in grado di generare valore, gli spazi non profit non riescono a realizzare una sostenibilità a lungo termine, rischiando spesso di andare incontro a un’esistenza breve.
Se Flip Project in oltre dieci anni è riuscito a rimanere attivo e a mantenere una progettualità seria e di qualità, è stato sia tramite l’autofinanziamento sia grazie alla generosità e ai contributi derivanti dalle persone che vi gravitano intorno. La spontaneità, il dialogo, la comunità, il nomadismo e le collaborazioni, in Italia e all’estero, la voglia di costruire una realtà sul piano artistico e culturale hanno permesso all’artist-run space di continuare a crescere nel tempo.
Come un giardino in movimento, proliferante e germinativo, Flip si è radicato silenziosamente e in maniera resiliente, per poi aprire spiragli in una superficie livellata dal cemento.

 Agosto 2022

1. F. Del Vecchio, in Helena Hladilová. Hafgufa, comunicato stampa della mostra, Flip Project, Napoli, 2 giugno – 10 luglio 2022.
2. G. Deleuze, “Pensiero Nomade”, in G.Deleuze, L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, D.Borca (a cura di), introduzione di P.A. Rovatti, Biblioteca Einaudi, Torino 2007, n.235, p.329. Il testo è tratto dal convegno “Nietzsche aujourd’hui?”, svoltosi presso il Centre culturel international di Cerisy-la-Salle, luglio 1972, pubblicato in Nietzsche aujour d’hui?, I. Intensités, UGE, Paris 1973, pp.159-174, 185-187 e 189-190, trad.it. di F.Polidori in “aut aut”, n.276, 1996, pp.13-21.
3. Cfr. F. Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi, coll. Piccola Biblioteca Einaudi, n.310, Torino 2006.
4. S. Thelwall, Size matters: Note towards a Better Understanding of the Value, Operation and Potential of Small Visual Arts Organisation, Common Practice, London 2011.
5. L. Kolb, G. Flückiger, “We want to become an institution”. An Interview with Maria Lind, ONCURATING.org, (New) Institution(alism), Issue 21 / December 2013, p.29.

 

Tabea Badami
Tabea Badami