Mark Dion. By the Sea

IN OCCASIONE DELLA PERSONALE DI MARK DION A GENOVA PRESSO PALAZZO PALLAVICINO CAMBIASO, CURATA DA PINKSUMMER, PUBBLICHIAMO UNA CONVERSAZIONE INCENTRATA SU ALCUNI DEI TEMI CHE SOTTENDONO LA MOSTRA E SU QUESTIONI CHE INFORMANO DA TEMPO LA RICERCA DELL’ARTISTA, COME I RAPPORTI FRA CAPITALISMO E AMBIENTALISMO, LA RELAZIONE TRA LINGUAGGIO E SIGNIFICAZIONE, LA TASSONOMIA.

Pinksummer: Essendo che il linguaggio produce senso e genera significato, credi che abolendo la parola razza, soprattutto dal vocabolario delle costituzioni su cui vengono improntate le leggi degli stati e delle nazioni, ciò potrebbe scoraggiare gli atteggiamenti discriminatori tipici del razzismo?
Seppure da Ippocrate al XVIII secolo la parola razza sia stata più o meno usata in modo interscambiabile con il termine specie, adesso sappiamo che a differenza della specie, la razza non è una categoria tassonomica, ma un costrutto sociale biologicamente sfocato basato su un raggruppamento fenotipico privo di significato zoologico, a prescindere dalla specie di riferimento, che sia quella umana (Homo sapiens) o di qualsivoglia altra specie appartenente al regno animale. Nominare non è in sé la prima forma di classificazione e in questo senso non implica la possibilità di pensare esclusivamente il proprio pensiero? In che rapporto stanno le parole e le cose nella tua opera?

Mark Dion: Domanda interessante. Non sono un esperto di storia costituzionale o del concetto di razza, tuttavia ho imparato almeno un po’ da studiosi della storia della scienza e dell’evoluzione come Stephen Jay Gould (in particolare in Intelligenza e pregiudizio. Contro i fondamenti scientifici del razzismo), Cary Wolfe e Donna Haraway, circa la storia cupa del “razzismo scientifico”.
Per quanto so, il termine razza è usato nel linguaggio costituzionale in modo da proteggere i diritti di tutti, indipendentemente dalla razza. Si tende a usarlo per rimarcare coloro che hanno sofferto storicamente della discriminazione, così come accade per il termine sesso o orientamento sessuale.
Forse dovrebbe/potrebbe essere eliminato, giacché la protezione dei diritti di tutte le persone, potrebbe in realtà significare veramente tutti.
Come dici, razza non è realmente un termine biologico ma di natura culturale, che ha una lunga storia di malizia, dalla dominazione e discriminazione, allo sterminio totale. Fino alla prima metà del secolo scorso c’era un feroce tentativo di qualificare la razza come qualcosa di simile alla specie. La teoria della razza si è mimetizzata come una forma di biologia evoluzionistica. Ho una grande collezione di libri di biologia dell’inizio del XX secolo che si sforzano di inquadrare la razza come se si trattasse di questioni biologiche di specie separate nel modo più spaventoso e fraudolento. Penso che la maggior parte del mio lavoro sia un tentativo di guardare la storia della scienza e della classificazione e sottolinearne i momenti in cui l’ideologia, la pseudoscienza e gli agenti sociali permeano la scienza borghese. Il linguaggio, come dici, può essere la prima causa di questo inquinamento. Il corpo di lavori che sto presentando attualmente è, naturalmente, carico di attacchi diretti al linguaggio e alla significazione, dato che nei disegni, mascherati da tabelle informative, c’è un’apparenza logica veramente esigua.

PS: L’Illuminismo portò poco dopo la presa della Bastiglia nel 1789 alla dichiarazione dei diritti dell’uomo, in cui donne e schiavi non erano implicitamente ammessi, ma nemmeno esplicitamente esclusi e nell’ambito delle antropologie sensistiche in quel tempo s’incominciò a ritenere anche inammissibile la cesura netta tra i diritti degli umani e dei non umani, degli animali. Jeremy Bentham, fondatore dell’utilitarismo, propose un’impostazione etica volta a minimizzare la sofferenza degli esseri senzienti. Secondo l’attivismo politico antispecista, l’invenzione del concetto di specie è fondamentale per pensarsi come altro dall’animale. Lo sfruttamento dell’animalità rimanda al neolitico, alla nascita delle società agricole stanziali e coincide anche con l’inizio dello schiavismo. Per uscire dal dominio antropocentrico rispetto ai non umani senzienti, la domanda che ci si deve porre, per gli antispecisti, è non se possono parlare o se possono ragionare, ma se possono soffrire. Credi che l’intelligenza peculiare degli umani possa rimanere un parametro per determinare il valore delle altre specie zoologiche?

MD: Un problema fondamentale, naturalmente, è che noi tendiamo a inquadrare la discussione come umani da una parte e animali dall’altra. La parola “animale” è dannatamente inutile. Si riferisce a tutto, dai protozoi ai coralli, dai colibrì agli orangotango. Non c’è molto spazio per la differenziazione. Chiaramente, quando parliamo di animali, abbiamo bisogno di esprimere che c’è un mondo di differenze tra un serpente di mare e una balena assassina, tra un lupo e un grillo. Ci sono numerosi animali che condividono una forma di cognizione notevolmente simile alla nostra, inclusa una complessa struttura sociale. Non avrei nessun problema a includerli nel concetto di persona, con tutti i diritti e le protezioni che ne conseguono. Il problema di come gli umani immaginano il proprio posto nel mondo rimanda alla formazione dell’idea più perniciosa e persistente della tradizione occidentale – la grande catena dell’essere o scala naturale. Il concetto che permane dal periodo classico fino a tutto il XIX secolo (e ovviamente trova espressione oggi) stabilisce la gerarchia e il senso dell’umano come l’apice del mondo naturale.
Penso molto a come la nostra cultura si sia evoluta come un rifiuto diretto dell’animalità, che dovrebbe includere la morte, il sesso, mangiare, invecchiare e espellere gli scarti. Il terrore della nostra mortalità ha molto a che fare con l’estinzione degli esseri con i quali condividiamo il pianeta. È indicativo il fatto che usiamo la parola “animale” come insulto.

PS: ll capitalismo potrebbe essere il modo in cui l’Homo sapiens ha espresso l’antropocentrismo ai danni del pianeta e della diversità. In questo senso il post-umano dell’etica inter-specista potrebbe mai svilupparsi dentro a un sistema capitalista la cui plasticità paradossale è quella di trarre vantaggio anche dal veganismo etico?

MD: Per quanto creda veramente che il capitalismo e il colonialismo siano stati i fattori storici più distruttivi per l’ambiente e la biodiversità del mondo, non penso che il capitalismo sia l’unica espressione del mondo informato dall’antropocentrismo. Sicuramente nella tradizione occidentale, come in numerose altre, la dominazione, il degrado e la distruzione dei luoghi e degli organismi naturali precedono il capitalismo. Tuttavia sono totalmente d’accordo che un genere di mondo dove un’etica post-umana e inter-specista o anche un luogo che valorizzi le cose e i luoghi selvatici per il loro essere intrinseco, non possono essere promossi dai valori del capitalismo che afferma che il benessere è generato dalla conversione delle risorse naturali.

PS: Parlaci del tuo ambientalismo reso ancora più radicale oltre che dall’utilizzo immaginifico delle categorie tassonomiche maneggiate con disinvoltura, dal tratto intelligibile dei tuoi disegni, dall’estetica garbata dei tuoi “cabinets” e da quello che è stato definito nel tuo lavoro il vuoto di distinzione storica rispetto ai reperti, in genere artificialia, che raccogli e ordini. Tutto rimanda all’hic et nunc: i tuoi reperti accuratamente disposti nell’indifferenziazione storica sembrano sovvertire intimamente quegli stessi standard di catalogazione museale positiva o positivista a cui ti rifai. La storia intesa come progresso lineare è deflagrata e con essa non dovrebbe estinguersi ogni illusione deterministica circa i futuri?

MD: Ci sono molti modi per essere un artista e pensatore ambientalista. Quando penso all’arte a servizio dell’ambiente e all’arte come parte di una costruzione progressiva della natura, sento che la situazione richiede “tutto l’equipaggio in coperta”. Il mio ruolo come artista è interrogare la storia delle idee e degli oggetti nel tentativo di capire come noi, come società, siamo evoluti in una relazione suicida rispetto al mondo naturale. Questa è la mia posizione circa il pensiero critico e la manifestazione di una nuova cultura della natura.
Comunque penso anche che una delle cose più importanti del ruolo degli artisti sia quello di nutrire e stimolare l’amore per la giustizia ambientale, cose selvagge e posti selvaggi, e non intendo solo luoghi incontaminati. Alla fine le persone salveranno soltanto ciò che amano, e ameranno solo ciò che incontreranno, conosceranno e di cui faranno esperienza. È questa cultura progressiva della natura che difendo. Prosperare richiederà la partecipazione di un’ampia varietà di artisti visivi – da quelli che fanno belle fotografie e fanno film squisiti sul mondo naturale, a quelli che lavorano con ingegneri e scienziati per trovare soluzioni pratiche ai problemi ecologici, a quelli che condannano la distruzione e l’avidità, a quelli che immaginano un altro mondo. Ognuno di noi avrà il proprio compito da svolgere. Il mio posto è quello di interrogare la storia delle idee nella tradizione espositiva della storia naturale, ma anche costruire lavori e spazi per incoraggiare interazioni fruttuose con le comunità bioniche.

PS: Per cancellare le migliaia di specie botaniche e zoologiche che ogni anno scompaiono dalla faccia della terra per qualche azione dell’uomo si è mantenuta la nomenclatura binomiale dei due ultimi taxa del metodo tassonomico di Linneo: genere specie in latino e corsivo? Non è struggente pensare a una catalogazione del mondo naturale di segno negativo?

MD: La gente spesso fraintende la mia critica alla tassonomia come una guerra alle metodologie scientifiche, mentre non è questo il senso. Dovremmo, invece, essere vigili circa le metodologie di influenza delle agende sociali, questo campo è uno strumento eccezionalmente valido per la nostra comprensione del mondo. La sistemica è un modo di tracciare le relazioni evoluzionistiche e, pur essendo un sistema artificiale, è una struttura che ci aiuta a comprendere e quantificare la biodiversità. Anche se la classificazione scientifica potrebbe essere nata come imposizione del pensiero gerarchico e come modo per comprendere il lavoro e i metodi del dio cristiano, si è trasformata in una disciplina essenziale per illuminare la complessità dell’evoluzione.
Il pathos a cui fai riferimento è qualcosa su cui ho lavorato a lungo (dalla fine degli anni ottanta) – considerando che il periodo moderno si trova a cavallo tra la lista delle piante e degli animali “scoperti”, seguita dalla lista delle specie che si estinguono. Naturalmente, senza l’identificazione sistematica degli organismi, non avremmo la minima idea di cosa stiamo perdendo.

PS: Si dice che i collezionisti siano gli uomini/donne più passionali del mondo. Il tuo lavoro implica sicuramente il raccogliere e l’ordinare in modo rigoroso, la classificazione è il terreno in cui si manifesta la tua libertà ascientifica di artista, ammesso che si possa definire in modo proprio tale attitudine alla libertà, rispetto all’azione classificatoria. Nella tua opera è l’oggetto ad avere un ruolo guida o è il sistema atto a contenerlo?

MD: Ordinare una collezione è incredibilmente simile alla pratica curatoriale che trovo quasi indistinguibile dallo stesso fare arte. Mentre spesso determino un ambito organizzativo prima di iniziare a collezionare, questo non può essere eccessivamente rigido, dato che il metodo deve essere in dialogo con gli oggetti stessi. Ci sono indubbiamente delle volte in cui un oggetto o una serie di cose sono già così singolari che l’intero ambito deve essere alterato per accoglierli.
Come dici, i miei modi di ordinare sono spesso ascientifici. In più evito la ricapitolazione di tropi organizzativi standard come la cronologia, le differenze regionali, i caratteri tassonomici, la funzione e forma o le operazioni casuali o fortuite. Per quanto problematica possa essere, la wunderkammer offre una gamma di principi di ordine allegorici che precedono l’Illuminismo e che possono essere espressivamente liberatori.

PS: Cosa presenterai da Pinksummer per la tua prima personale in galleria dal titolo By the Sea?

MD: Questa mostra è particolarmente eccitante per me poiché la gran parte del lavoro è il risultato del recente periodo di lockdown. La maggior parte del mio lavoro si basa su un’interazione con il luogo. Rispondo al luogo dove i progetti sono situati, ricerco, esploro e lascio che sia il posto a dirmi cosa fare. Improvvisamente, non ho avuto un luogo, un team, un budget, niente della mia normale struttura metodologica. Invece di rimanere paralizzato mi sono ricordato che sono un artista, e che non ho bisogno di molto di più di una matita, inchiostro e carta. Così gran parte dei lavori in mostra sono disegni e carte fatte in questo periodo.
Il disegno è stato a lungo un aspetto essenziale della mia pratica, ma in passato un grande disegno per me sarebbe stato di 30 x 40 cm. Questi nuovi lavori sono spesso molto grandi. È stato un momento importante per adattarmi e spingermi oltre la mia convenzionale gamma di espressione. La maggior parte dei lavori nella mostra sono in relazione alla questione della salute degli oceani e della biodiversità marina. È stato un punto centrale del mio lavoro per un po’ di tempo, ma ha anche molto a che vedere con la relazione di Genova con il mare. La mia città natale, New Bedford, Massachusetts, è anch’essa un duro porto industriale e una città di pescatori. Sento un’affinità con Genova basata sulla mia esperienza formativa di abitante di una città portuale. Parte di questa mostra arriva da un’infinità di problemi e sfide che le città affacciate sul mare affrontano.
Il lavoro relativo agli oceani non può fare a meno di essere in qualche modo malinconico considerando che ci sono così poche notizie positive che emergono dagli ambienti marini. Uno dei soli modi di rendere un lavoro come questo sopportabile è quello di impiegare umorismo, mestiere e complessità nel DNA critico dei lavori stessi.

Giugno 2021

 

ON THE OCCASION OF MARK DION’S PERSONAL EXHIBITION IN GENOVA AT PALAZZO PALLAVICINO CAMBIASO, CURATED BY PINKSUMMER, WE PUBLISH A CONVERSATION FOCUSED ON SOME OF THE THEMES UNDERLYING THE EXHIBITION AND ON ISSUES THAT HAVE INFORMED THE ARTIST’S RESEARCH FOR SOME TIME, LIKE THE RELATIONS BETWEEN CAPITALISM AND ENVIRONMENTALISM, THE RELATIONSHIP BETWEEN LANGUAGE AND MEANING, TAXONOMY.

Pinksummer: Since language produces sense and generates meaning, do you think that abolishing the word “race” from the vocabulary of the constitutions, where the laws of the states and nations are based, could discourage the discriminatory attitudes typical of racism? Although starting from Hippocrates to the XVIII century the word “race” has been used more or less interchangeably with the term “species”, we now know that unlike species, race is not a taxonomic category, but a biologically blurry social construct based on a phenotypic grouping lacking zoological significance, regardless of the species of reference, whether it is the human (Homo sapiens) or any other species belonging to the animal kingdom. Isn’t naming in itself the first form of classification and in this sense doesn’t it imply the possibility of thinking exclusively one’s own thought? In what relationship are words and things in your work?

Mark Dion: Interesting question. I am not an expert in constitutional history or the concept of race, however I have learned quite a bit from scholars of the history of science and evolution like Stephan Jay Gould (particularly in The Mismeasure of Man), Cary Wolfe and Donna Haraway, about the grim history of “scientific racism”.
As far as I know, the term race is used in constitutional language as a way to protect the rights of all, regardless of race. It tends to be used to emphasize those who have suffered historically from discrimination, as is the same for the terms sex or sexual orientation. Perhaps it should/could be eliminated, since protections and rights of  “all people”, could actually mean all people.
As you say, race is not really a biological term, but a cultural one, which has a long history of mischief, from domination and discrimination to all out extermination. For the first half of the last century there was a fierce attempt to qualify race as something like species. Race theory camouflaged itself as evolutionary biology. I have a large collection of early 20th century biology text books which strive to frame race as a biological issues of separate species in the most appalling and fraudulent manner.
I think a big part of my work is about looking at the history of science and classification and highlighting the moments when ideology, pseudoscience and social agents permeates bourgeois science. Language, as you mention, can be the first instance of this pollution. The body of work I am exhibiting currently, is of course of full frontal attack on language and signification, since there is very little apparent logic to the drawings, masquerading as informational charts.

PS: Shortly after the storming of the Bastille in 1789 the Enlightenment led to the declaration of the rights of human, in which women and slaves were not implicitly admitted, but not explicitly excluded either, and in the context of sensory anthropology at that time began to consider inadmissible the sharp break between the rights of humans and non-humans, animals. Jeremy Bentham, founder of utilitarianism, proposed an ethical approach aimed at minimizing the suffering of sentient beings. According to anti-speciesist political activism, the invention of the concept of species is fundamental to think of oneself as other than the animal. The exploitation of animality goes back to the Neolithic, to the birth of settled agricultural societies, and coincides with the beginning of slavery. In order to get out of the anthropocentric domination to non-human sentients, the question that anti-speciesists think must be asked is not whether they can speak or reason, but whether they can suffer. Do you think that the peculiar intelligence of humans can remain a parameter for determining the value of other zoological species?

MD: One fundamental problem of course is that we tend to frame the discussion as humans on one side and all animals on the other. The word “animal” is pretty bloody useless. The refers to everything from Protozoa and Corals, to Hummingbirds and Orangoutang. Not much room for differentiation. Clearly when we speak about animals we need to express that there is a world of difference between a sea snail and a killer whale, between a wolf and a cricket. There are numerous animals who share a form of cognition remarkably similar to our own, including complex social structure. I would have no issue including them in the concept of personhood, with all its rights and protections.
The problem of how humans imagine their place in the world goes back to the formation of the most pernicious and persistent idea in the Western tradition – The Great Chain of Being or Scala Naturea. This concept which lasts from the classical period all the way into the 19the century (and indeed finds expression today) establish hierarchy and the sense of human as the culmination of the natural world.
I think so much of our culture has evolved as a direct denial of our animality, which would include death, sex, eating, aging, and the elimination of waste. The terror of our own mortality has much to do with the selling out of the beings we share the planet with. It is telling that we actually use the word “animal” as insult.

PS: Capitalism could be the way in which Homo sapiens has expressed anthropocentrism to the detriment of the planet and diversity. In this sense, could the post-human inter-speciesist ethic ever develop within a capitalist system whose paradoxical plasticity is that it also benefits from ethical veganism?

MD: As much as I truly believe that Capitalism and Colonialism have been the most destructive historical factors for the world’s environments and biodiversity, I don’t think Capitalism is the only expression of world-shaping anthropocentrism. Certainly in the Western tradition as well as numerous others, domination, degradation and destruction of natural places and organisms existed long before Capitalism.
However I totally agree that the kind of world where a post-human inter-speciesist ethic, or even a place that valued wild things and places for their inherent selves, can not be fostered by the values of Capitalism which states that wealth is generated by the conversion of natural resources.

PS: Tell us about your environmentalism, made even more radical not only by the imaginative use of taxonomic categories handled with ease, but also by the intelligible line of your drawings, by the polite aesthetics of your “cabinets” and by what has been defined in your work as the lack of historical distinction with respect to the finds, generally artificialia, that you collect and order. Everything refers to the hic et nunc: your exhibits carefully arranged in historical indifferentiation seem to intimately subvert those same standards of positive or positivist museum cataloguing to which you refer. History intended as linear progress has exploded and with it every deterministic illusion about the futures should be extinguished?

MD: There are many ways to be an environmental thinker and artist. When I imagine art in the service of the environment and art as part of building a progressive culture of nature, I feel like the situation calls for “all hands on deck”. My role as an artist is to interrogate the history of ideas and objects to attempt to understand how we, as a society,  have evolved a suicidal relationship to the natural world. That is my place in the construction of a thoughtful critique and manifestation of a new culture of nature.
However I also think one of the most important roles artists can have is to nurture and stimulate love for environmental justice, wild things and wild places, and I do not mean only pristine places. In the end, people will only save what they love, and they will only love what they encounter, learn about and experience. It is this progressive culture of nature I am championing. To thrive it will require the participation of a wide variety of visual artists – from those who take beautiful photos and make exquisite films about the natural world, to those who work with engineers and scientists to find practical solutions to ecological problems, to those who condemn destruction and greed, to those who imagine another world. We each have our job to do. My place in that is to interrogate the history of ideas in the natural history display tradition but also to build works and spaces that encourage fruitful interactions with biotic communities.

PS: In order to erase the thousands of botanical and zoological species that disappear from the face of the earth every year due to some action of human, has the binomial nomenclature of the last two taxa of Linnaeus’ taxonomic method been maintained: genus species in Latin and italics? Isn’t it poignant to think of a negative cataloging of the natural world?

MD: People often misunderstand my criticism of taxonomy as a war on scientific systematics, when this is not the case. While we have be vigilant about social agendas influencing systematics, the field is an exceptionally valuable tool in our understanding of world. Systematics is a way of tracing evolutionary relationships and while an artifical system it is a structure which helps us comprehend and quantify biodiversity. While scientific classification may have started with the imposition of hierarchical thinking as a way to understand the works and methods of the christian god, it has transformed as field essential to illuminating the complexity of evolution.
The poignancy you mention is something I have long worked about (since the late 1980’s) – the modern period being bookend by first the list of plants and animals “discovered”, followed by the list of the species going extinct. Of course without systematic identification of organisms, we would not have a clue what we are loosing.

PS: It is said that collectors are the most passionate men/women in the world. Your work certainly implies collecting and ordering in a rigorous way, classification is the terrain in which your ascientific freedom as an artist manifests itself, considering that one can define in a proper way this attitude to freedom, with respect to the classifying action. In your work, is it the object that has a guiding role or is it the system that contains it?

MD: Well ordering a collection is remarkably similar to curatorial practice which I find almost indistinguishable from art making. While I often determine an organizational framework before I start collecting, it can not be overly rigid, since the method must be in dialogue with the objects themselves. There certainly are times when an object or series of things are just so truly remarkable that the entire framework must be altered to accommodate them.
As you say my orderings are often ascientific. Additionally I avoid recapitulation of standard organizational tropes like chronology, regional difference, taxonomic types, function and form, random or chance operations. As problematic as the wunderkammer may be, it does offer a range of allegorical ordering principals which predate the Enlightenment and can be expressively liberating.

PS: What will you be presenting at Pinksummer for your first solo show titled By the Sea?

MD: This exhibition is particularly exciting to me since much of the work is the result of the recent lockdown period. Most of work is based on an interaction with site. I respond to the location where projects are situated, research and explore and let the site tell me what do. Suddenly, I had no site, no team, no budget, nothing of my usual methodological structure. Rather then becoming paralyzed I recalled that I am an artist, I don’t need much more then pencil, ink and paper. So much of the work in the exhibition are drawings and charts made over this period.
Drawing has long been an essential aspect of my practice but in the past a large drawing for me would be 30 X 40 cm. These new works are often much larger. This was a great moment to adapt and push myself beyond my conventional range of expression.
Most of the works in the exhibition relate to issues of ocean health and marine biodiversity. This has been a major focus of my work for quite some time, but also it has much to do the Genova’s relationship to the sea. My home town, New Bedford, Massachusetts is also a gritty industrial sea port and fishing city. I feel a kinship with Genova based on my own formative experience as port city dweller. Part of this exhibition arrives from an infinity to the kinds of issues and challenges working cities of the sea face. Work related to the oceans can not help but be somewhat melancholic since there is so little positive news arising from the marine environments. One of the only ways to make work like this bearable is to deploy humor, craft and complexity in the critical DNA of the works themselves.

June 2021

 

Pinksummer
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