Un virus cambia i nostri comportamenti. Il percorso interrotto di Germano Celant. La dipartita silenziosa di Maurizio Calvesi

I. Un virus cambia i nostri comportamenti

Il 2020 sarà un anno da ricordare. E ce lo ricorderemo. L’anno in cui un virus ha innescato un processo di trasformazione radicale nel nostro stile di vita. Da posizione remota e a prova di contagio, l’illuminato Bill Gates, uno dei principali finanziatori dell’OMS, ha pronosticato la fine della pandemia per il 2022, ma la letteratura distopica, che nel frattempo si va producendo copiosa, lascia presagire diversi apocalittici scenari. Comunque, almeno per il momento, sembra scampato il pericolo di un altro lockdown, il che rende meno traumatica l’imposizione di un cambiamento di abitudini che, per fortuna, pensando a quelle buone, sono dure a morire.
Intanto, c’è chi ha consigliato di evitare anche il saluto con il gomito. Un gesto al quale già non pochi si sono rifiutati, avvertendolo come l’inizio di una metamorfosi nei comportamenti, un nuovo stile di vita, appunto, imposto per ribadire il social distancing, chiamato anche, e forse sarebbe stato meglio adottarne la traduzione, physical distancing.
Se avessimo dovuto giudicare quel gesto, il darsi il gomito, dal punto di vista estetico, che è poi quello che più ci compete – anche dopo che l’arte ha intrapreso il doppio binario dell’artistico e dell’estetico nell’uso che ne ha fatto Calvesi (sull’argomento si possono leggere pagine altresì significative di Argan o di Menna, nelle loro differenti visioni) – non potremmo certo non giudicarlo poco elegante, come di corpo menomato. Ma ovviamente non erano queste le ragioni per cui veniva sconsigliato, quanto piuttosto per tenere le debite distanze, quelle distanze che si addicevano una volta semplicemente alla buona educazione, “non avvicinarsi troppo alle persone con le quali si parla” era considerato un segno di rispetto e non di alito infetto.
Il gesto sgraziato del contatto di gomito si consiglia ora di sostituirlo con un altro, quello di portare la mano al cuore. Supremo gesto, sicuramente pacificato con il senso estetico e persino un po’ cavalleresco. Un gesto che interpretato simbolicamente, che è poi un’altra delle competenze dell’arte, varrebbe molto di più che non soltanto per il senso pratico di evitare il contatto.
Potrebbe valere, per esempio, come indicazione di una aggiunta, di quel surplus che trasformerebbe il gesto in valore etico, che ha anch’esso sempre avuto a che fare con l’arte.
La mano al cuore, il cuore in mano, sarebbe allora davvero un gesto carico di storia e potenzialmente pieno di esiti, come una stretta di mano che suggellava un patto per la vita. Un beau geste, che interpretato secondo i valori che la storia dell’arte presuppone, potrebbe esprimere la propria potenzialità, sviluppare un più socievole stile di vita. Se non fosse che in quella scelta non c’è traccia di motivazione estetica, di senso etico o di valore simbolico, ma soltanto un mero aspetto funzionale.

II. Il percorso interrotto di Germano Celant

Il virus ha avuto già le sue vittime illustri. Il pensiero va, per quel che ci riguarda, a Germano Celant, che al rientro a Milano da uno dei suoi innumerevoli viaggi a New York, contagiato dal Covid-19, è stato ricoverato al San Raffaele dove è deceduto il 29 aprile.
Pensando al suo lavoro, tutti concordano che il suo grande merito è stato quello di aver prodotto la teoria dell’Arte povera, che oltre ad aver reso celebri gli artisti coinvolti, ha avuto il valore di rappresentare le tensioni che agivano in profondità nel mare magnum dell’arte contemporanea dalla metà degli anni Sessanta.
Un prestigio che a onor del vero deve condividere con altri, con Tommaso Trini, prima di tutti, che ha svolto un’azione ravvicinata di lettura e interpretazione delle istanze che hanno mosso quella generazione protagonista. Ma anche con Alberto Boatto e con Maurizio Calvesi che, di una decina di anni più grandi, hanno saputo riconoscere in quei giovani l’energia trasformatrice che ha determinato il clima di rinnovamento del processo artistico all’insegna delle istanze dell’avanguardia, e allo stesso tempo hanno scorto i rischi di quel passaggio. Il loro contributo teorico e pratico, assieme a quello di pochi altri che segnalarono al mondo con tempestività le novità del momento, costituisce oggi un’importante eredità, indispensabile per una corretta interpretazione di quegli anni.
All’interno di quella compagine, il merito particolare di Celant è stato quello di avere intrecciato, rinforzandone la teoria, l’Arte povera con la Land Art e la Conceptual Art. Significative risultano in particolare tre occasioni: nel 1970, quando alla Galleria d’Arte Moderna di Torino propose la mostra land art / arte povera / conceptual art; nel ’74, con una conferenza dal medesimo titolo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e un paio di anni dopo con la pubblicazione, con il Centro Di di Firenze, del volume Precronistoria. 1966-69, che ampliava il campo alla Minimal Art, alla Body Art, all’Arte ambientale e ai nuovi media. Stava formulando così una teoria espansa che si faceva interprete di un nuovo modo di intendere il lavoro in un’area che potremmo definire concettuale (a prescindere, o oltre la teoria di Kosuth, evidentemente), che vedeva uniti, in particolare, artisti americani e italiani. Una zona che rientrava esattamente nell’ambito separato dell’estetico a scapito dell’artistico.
Quella teoria lo porterà ad occupare un ruolo di prestigio a livello internazionale (a questo poté, oltre la teoria, la sua grande capacità manageriale svolta tra i due mondi), anche se è ricordato comunque come il gran cerimoniere dell’Arte povera, basti scorrere, anche velocemente, le notizie della sua scomparsa sulla stampa internazionale: “…the Towering Italian Art Critic Who Gave the World Arte Povera”, “the Art Historian Who Coined Arte Povera”, “…known for his championing of the Arte Povera movement”.
In Italia Celant è stato certamente il più internazionale dei critici militanti, nato con una generazione che ha saputo presentarsi al mondo come un nuovo soggetto politico in grado di esercitare una eccezionale pressione a livello mondiale.
Appunti per una guerriglia (1967), il testo di partenza della sua teoria, testimonia di questo carattere generazionale e internazionale. Vi si ritrovano le idee ma anche gli obiettivi diffusi nella seconda metà degli anni Sessanta (quando nacque, come ricordava Perniola, il Sessantotto) non solo tra gli artisti, ma soprattutto tra gli intellettuali o più semplicemente tra i giovani, che vedevano per il soddisfacimento delle loro esigenze l’urgenza di ribellarsi a una cultura rigida e autoritaria, che avvertivano la necessità di scardinare le istituzioni borghesi, come l’arte, appunto, riproponendo tematiche e comportamenti in continuità con l’avanguardia, predicando la libera creatività e la sovrapposizione di arte e realtà.
In quegli Appunti non c’è alcuna indicazione sulle condizioni storiche; c’è invece una presa di posizione generazionale, e in quanto tale transnazionale, contro il consumismo, finanche contro la coerenza pensata come repressiva. C’è la rivendicazione della libertà oltre i vincoli naturali e storici che la società imponeva: “L’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire…”.
Era il ’67, nel giro di poco tempo quel discorso da metaforico diverrà reale, il Sessantotto e la recrudescenza degli anni a seguire porteranno la consapevolezza che l’estetico cedeva il passo al politico.
Dopo il trambusto degli anni Settanta, proprio allo scadere del decennio, in un confronto tra generazioni, avvenne un profondo cambiamento di sensibilità. Con altrettanto carattere internazionale, gli artisti più giovani si riappropriarono della pittura proponendo una serie di varianti sostanzialmente riconducibili nei contenuti e nelle forme a un generico neo-espressionismo. In tal modo si recuperava un’attenzione sia per certa tradizione modernista che per certa attenzione alle forme espressive, ci si riappropriava, in sostanza, della dimensione dell’artistico.
Celant reagì a questo con un saggio-manifesto dall’inequivocabile titolo Inespressionismo. L’arte oltre il contemporaneo (1988). Una dichiarazione di fiducia sul flirt che un gruppo di artisti intratteneva con la produzione televisiva, tecnologica e industriale, che ribadiva le ragioni dell’Arte povera e dell’area concettuale già legata ai media. Queste ne usciranno rafforzate, ma sarà poi nel corso degli anni Novanta che si schiariranno definitivamente gli obiettivi: confermare i valori di una pratica artistica tutta incentrata sul presente di un mondo trasnazionale e liberista.
Ma nonostante la coerenza dimostrata, gli anni che seguirono contenevano problemi che emersero proprio in ragione del raggiungimento di parte degli obiettivi posti nel Sessantotto. Sembrò ormai evidente la direzione lungo la quale ci si era spostati, quella del post-moderno, con la caduta delle ideologie, con la fine della storia, con la crisi delle grandi narrazioni (della religione, del marxismo, del progresso) e anche dell’Avanguardia.
Celant è appartenuto a quella generazione che ha prodotto il Sessantotto, ovvero che ha proposto e in parte praticato il rapporto tra arte e potere, tra immaginazione e realtà. Una generazione partita dalla trasnazionalità e in molti casi approdata alla globalizzazione.
I mezzi espressivi adottati nel corso degli anni Sessanta, l’uso degli oggetti, del corpo, della fotografia, del videotape, ecc., che avevano segnato la fase di rottura e di superamento delle forme più tradizionali, si sono consolidati e trasformati in codici espressivi, in linguaggi accademici, perdendo così la loro naturale capacità di provocazione che gli permetteva di rompere le superficialità consolidate e smuovere la realtà nel profondo.
Nessuna soluzione di continuità per Celant, interrotto di colpo nel pieno esercizio delle sue funzioni di guerrigliero dell’Arte povera e di critico super militante, no borders, no limits alla sorprendente età di ottant’anni.

III. La dipartita silenziosa di Maurizio Calvesi

Il 24 luglio scorso è scomparso a novantadue anni Maurizio Calvesi. Da qualche tempo era rimasto silenzioso, offrendo un’immagine pensosa e riflessiva.
Devo ricordarlo con riconoscenza per il viaggio che intraprese per venire a presentare all’Archiginnasio di Bologna, insieme a Giovanni Castagnoli, il primo numero di “Arte e Critica”; con riconoscenza per gli inviti che mi rivolse a partecipare ai convegni dedicati a Lionello Venturi e a Giulio Carlo Argan da lui curati alla Sapienza e soprattutto per il suo insegnamento ancora vivo. Eppure, le ragioni precipue di queste righe, senza voler passare in sott’ordine l’impareggiabile studio su Caravaggio o l’originale interpretazione di Duchamp, risiedono soprattutto nell’importanza che il suo lavoro di storico e di critico d’arte ha avuto per la rilettura del Novecento.
Un attraversamento storico, una ri-storia come lui l’ha chiamata, che lo ha portato a individuare nascita sviluppo e dissolvimento di quel nucleo di idee e di pratiche artistiche che ha caratterizzato l’avanguardia. Una ri-storia, dove lo storico e il critico agivano in simultaneità, che ha liberato il Futurismo dalla soffocante e riduttiva interpretazione ideologica che lo intrappolava nei suoi aspetti più superficiali, riscattandolo dall’accusa di essere guerrafondaio e fascista, provinciale e attardato su posizioni positiviste e, soprattutto, fornendone un’interpretazione che ne ha esaltato tanto la potenza innovativa e scardinante quanto l’energia anticipatrice di quelle istanze che, riprese dal Dadaismo e dal Surrealismo, rimbalzarono poi nelle esperienze degli anni Sessanta fino all’Arte povera (ricordava Calvesi che in un primo momento Celant pensava di chiamarla neo-futurismo) ed essendo questa inserita in quella teoria espansa prima indicata, ribadiva indirettamente quella continuità, evidenziandone il possibile raccordo con le esperienze americane ed europee.
Ma la sua riscrittura non si è fermata a questo punto, ovvero alla scena da cui si apre il Sessantotto. Se così fosse stato, sarebbe rimasto imbrigliato in quello stesso flusso di corrente che ha spinto la critica militante oltre la propria disciplina (parallelamente alla “critica operativa” in architettura), verso un’interpretazione ideologica che si addiceva più al politico che non all’arte, considerata pure nei due rami dell’artistico e dell’estetico.
Calvesi è andato oltre, ha indagato gli effetti prodotti dal nesso Futurismo-Dadaismo-Surrealismo e contestazione giovanile nei moti propri del Sessantotto prima e del Settantasette poi, mettendo in evidenza come il passaggio dall’élite artistica alla cultura di massa abbia minato le basi su cui si reggeva la stessa idea di avanguardia. Nondimeno, egli ha contribuito e a volte determinato il successo di questo o quell’artista, o richiamato l’attenzione su questa o quella tendenza, provocando il corso degli avvenimenti che hanno caratterizzato gli anni Sessanta e buona parte dei Settanta. Ha partecipato e sostenuto una rosa importante di artisti (da Schifano a Ceroli, da Pascali a Kounellis, da Paolini a Tacchi, da Pistoletto a Pisani), in sintonia con l’attività di gallerie come La Tartaruga o L’Attico, con le quali ha scritto, per mostre come Fuoco Immagine Acqua Terra e Teatro delle mostre, testi rimasti pietre miliari, documenti indispensabili per una corretta comprensione di quegli avvenimenti che cambiarono il pensiero e la prassi dell’arte. Senza dimenticare la sua partecipazione a eventi istituzionali e la sua attività giornalistica, che di quegli avvenimenti legati alla cronaca ha fatto un’occasione di riflessione ancora insuperata.
Non che Calvesi si sia sottratto alla critica militante, tutt’altro, solo che lo ha fatto con una consapevolezza più ampia, con quel respiro poi venuto meno con la generazione successiva, tutta impegnata a far leva sul presente (a cercare di cambiarlo). Un presente senza storia, incapace di rintracciare le proprie origini o individuare le ragioni del proprio essere. Questo è uno dei motivi, o forse una delle conseguenze, per cui l’avanguardia è rimasta vittima del procedimento, individuato dallo stesso Calvesi, dello “spossessamento e sorpasso” su cui si reggeva. Un tema che nel giunto Futurismo-Dadaismo-Surrealismo si era espresso in senso diacronico; che negli anni a cavallo tra Sessanta e Settanta, in concomitanza con l’affermarsi delle pratiche del comportamento, dell’uso del corpo (Body Art), della fotografia, del videotape, ecc. si espresse in senso sincronico, e che infine, in relazione al Movimento, si esprimerà nel differenziale qualità / quantità. Insomma, lo slogan “spossessamento e sorpasso” farà da modello alle “culture alternative  – sono parole sue – dove l’estetico cede sempre più al politico (pubblico e privato)”.
Quello del rapporto tra creatività e potere, tra arte e politica è un tema che connetteva tutta l’avanguardia e che Calvesi ha seguito con estrema attenzione, mettendo in relazione Artecrazia e Gli artisti al potere di Marinetti con l’imagination au pouvoir, uno dei motti del Sessantotto che riecheggiava quello che Breton, con generosa e intelligente variazione – ammetteva Calvesi –­ aveva mutuato dai futuristi. E poi il rimbalzo dell’immaginazione al potere nei fatti di Bologna del Settantasette, tra neodadaismo bifiano e Indiani metropolitani. Un motivo, quello della creatività e dell’immaginazione, “esaltate come forze rivoluzionarie e destinate a prendere il potere”.
Ma l’immaginazione al potere segna tanto l’esproprio dell’artista dal suo ambito preferenziale quanto quello dell’intellettuale. A essi non resta altra scelta che l’esercizio del potere. Forse c’era una terza via, che veniva indicata proprio in quegli anni da Deleuze e Guattari, ma alla quale Calvesi sembra non credere quando parla di “irrimediabile separatezza”, intendendo, appunto, quella tra arte e potere (politico).
Spesso è stata indicata a suo nocumento la vicenda legata alla teoria dell’Anacronismo, che ne ha segnato poi l’uscita dall’agone della critica attiva. Un abbaglio? Un disvelamento improvviso della sua vera natura? Il fatto è che al debutto degli anni Ottanta la crisi dell’avanguardia, che Calvesi aveva evidenziato con tempestività, era sotto gli occhi di tutti. Nella pittura di quegli artisti ricondotti all’Anacronismo, riuniti attorno alla galleria La Tartaruga, gli sembrò di ravvisare un ricomporsi della Storia, il presente che si ricollegava con il passato. Non c’era nostalgia in quel guardare indietro, semmai vi si poteva scorgere la figura catastrofica benjaminiana dell’Angelo della Storia che, rivolto con la testa all’indietro, era drammaticamente spinto in avanti dalla bufera (il progresso) verso un futuro più che mai incerto.
L’Anacronismo fu per Calvesi un’esperienza di breve durata, suffragata in quel momento da un intenso successo di mercato che, nel frattempo, era diventato il nuovo centro di potere, di un potere non più politico, dunque, bensì economico. Sembrava così che l’arte, nella sua “irrimediabile separatezza”, potesse riappropriarsi della propria sostanza, della propria dimensione immaginaria e metafisica, dove hanno origine il senso e il valore.
Ma forse così non è, il vento del progresso (di cui il Covid 19 è una conseguenza) va cambiando ulteriormente i comportamenti e finanche, c’è da scommetterci, le attitudini mentali.                                              

Arte e Critica, n. 95, autunno – inverno 2020, pp. 14-15.

Roberto Lambarelli
Roberto Lambarelli
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