Lamberto Pignotti. Riflessioni sugli anni Sessanta, una miniera di idee ancora da sfruttare

INCONTRIAMO LAMBERTO PIGNOTTI NELLA SUA ABITAZIONE, A ROMA. SONO I PRIMI MESI DEL 2018. UN PO’ OVUNQUE IMPERVERSANO LE CELEBRAZIONI, LE RIFLESSIONI, I RIPENSAMENTI INTORNO A QUELLO CHE CONTINUA A RAPPRESENTARE UN ANNO CHIAVE DELLA NOSTRA STORIA RECENTE, IL 1968. QUANDO L’IMMAGINAZIONE AL POTERE SEMBRÒ REALIZZARSI. INEVITABILMENTE LA CONVERSAZIONE PRENDE LE MOSSE DA LÌ, E CHIEDIAMO A UNO DEI PIÙ IMPEGNATI PROTAGONISTI DELLA POESIA VISIVA COSA RICORDA DI QUEL PERIODO, MA SOPRATTUTTO COME RILEGGE OGGI LE INQUIETUDINI, I PROPOSITI, I FERMENTI, GLI ERRORI DI QUELLA STAGIONE.

Lamberto Pignotti: Fra le tante manifestazioni che si sono ultimamente accavallate per celebrare il cinquantenario del ’68 ne è mancata una che avrebbe dovuto essere ricordata se non altro per il suo titolo, Situazione 68, un titolo che oggi può apparire concretamente rappresentativo ed emblematico.
Situazione 68 nacque in quell’anno a Firenze come “Rassegna d’arte e letteratura” finanziata dall’Associazione degli artigiani del capoluogo toscano, che metteva a disposizione due sedi prestigiose, una per la letteratura, Palazzo Medici Riccardi, per un convegno sulla poesia e sulla narrativa d’avanguardia, e l’altra al “Parterre” di Piazza Cavour per una mostra sulle esperienze più avanzate della pittura e della scultura. Il versante letterario fu curato da Luciano Anceschi, quello delle arti visive da Gillo Dorfles. Fra gli inviti degli scrittori figuravano nomi come Eco, Manganelli, Sanguineti, Balestrini, Barilli, Boatto, Menna, Palazzoli, Celant, De Marchis… L’elenco degli artisti invitati comprendeva fra gli altri Paolini, Pistoletto, Kounellis, Mattiacci, Mari, Fabro, Scheggi, Nannucci, Simonetti, Pascali, Castellani, Festa, Ceroli, Schifano, Bonalumi, Alviani…
Il convegno si svolse il 6 e il 7 dicembre, la mostra fra il 6 e il 31 di quel mese: entrambi avevano avuto però un’incubazione di diversi irrequieti mesi. Si era affievolita la spinta propulsiva del Gruppo 70. Il dissenso cresceva, le contestazioni incalzavano. Io che proprio nell’agosto del ’68 mi ero trasferito a Roma, come promotore e organizzatore della rassegna dovetti fare spesso la spola fra Roma e Firenze, tenendo i contatti con Anceschi a Bologna e con Dorfles a Milano.
Tutto il 1968 si era caratterizzato per una evidente crisi di mostre importanti come la Biennale di Venezia e per una minore valenza critica dei convegni letterari. Parallelamente, si poteva rilevare invece una straordinaria vitalità e una multiforme inventiva nell’ambito dell’arte e della letteratura. In quell’anno esce per altro da Lerici il mio Istruzioni per l’uso degli ultimi modelli di poesia, impostato su un diverso modo di intendere i rapporti fra le arti. Sembrò allora interessante cercare di fare il punto di siffatta convulsa situazione col concorso di scrittori, artisti e critici, rapportandosi consapevolmente anche alle aspettative di un pubblico reattivo e insofferente. La reazione e l’insofferenza, che ci si potevano aspettare, sfociarono in una forma di contestazione miope che purtroppo soffocò l’intento costruttivo del dibattito.

Daniela  Bigi: Quali erano i termini della contestazione?

LP: Contestavano il fatto che ci occupassimo della Situazione 68 nel suo insieme e non della situazione specifica e settaria di alcuni studenti di un istituto d’arte. Fin dai primi anni Sessanta, col Gruppo 70 avevamo contestato la “voce del padrone”, avevamo fatto la guerriglia semiologica; nel ’67 avevo pubblicato con Mondadori Una forma di lotta contro gli oppressivi linguaggi di massa… Per tutto questo ho visto quel certo ’68, velleitario e coercitivo a un tempo, col fumo agli occhi. Da quel contesto sono talora partiti spostamenti progressivi dall’estremità sinistra a quella destra…

Roberto Lambarelli: Prima hai citato il Gruppo 70, ci puoi dire qualcosa in più?

LP: Il Gruppo 70 nasce ad aprile-maggio del ’63, il Gruppo 63 nasce a ottobre-novembre di quello stesso anno. Preciso questo perché qualcuno di noi avrebbe voluto chiamarsi proprio Gruppo 63. Io mi opposi, prima di tutto perché avrebbe richiamato la vecchia denominazione del noto Gruppo 47 tedesco, e poi perché già in quell’anno esistevano due Gruppi 63, uno di artisti e uno di architetti. Col nome del Gruppo 70 miravamo ad anticipare un futuro non fantascientifico ma a portata di mano.

DB: Certo, dal ’63 vi proiettavate sul ’70, era a un passo… Ma intorno a quale idea vi riunivate?

LP: Qualcuno di noi praticava già il collage di parole e immagini e ci fu agevole per altro incollare con lo scotch spezzoni di pellicole a passo ridotto, 16 mm, di Prossimamente, trailer pubblicitari di film di imminente programmazione, che chiamammo Volerà nel ’70 dal titolo di uno di quegli spezzoni che annunciava la progettazione di un aereo che avrebbe appunto volato nel 1970. Tale titolo, che per noi era simbolico e benaugurante, costituì una “cine-poesia” composta di parole e immagini contrastanti con sequenze miste di manifestazioni patriottiche, musicali, spettacolari, belliche, ludiche e altro ancora. Era il 1965: una pellicola dissacrante, ironica, giocosa, che quando in anni più recenti viene riproposta – dalla GNAM, al MAXXI, dalla Biblioteca Nazionale di Firenze, al Pecci di Prato, al MART di Rovereto, alla Ca’ Foscari di Venezia – interessa e diverte ancora per la sua persistente carica di attualità. Ha costituito poi il modello cui successivamente si sono più blandamente ispirati certi “blob” televisivi…

RL: Il Gruppo 70 nasce dunque nel ’63, con quale obiettivo?

LP: Contrariamente al Gruppo 63, che si riconosce in un gruppo di letterati, noi nasciamo multimediali: poeti, pittori, musicisti, architetti, psichiatri, estetologi, musicologi. Io, Miccini, Antonio Bueno, Loffredo, Moretti, Bussotti, Chiari, e poi Lucia Marcucci, Isgrò, Ketty La Rocca, ma anche come compagni di strada Dorfles, Anceschi, Eco, Barilli, Menna, Klaus Koenig, Leonardo Ricci, Roman Vlad. Talora i nomi si mischiavano nei convegni e nelle tavole rotonde con quelli del Gruppo 63. Eco diceva di far parte del Gruppo 133…

RL: Anche Fluxus aveva la stessa tendenza multimediale.

LP: Per via della multimedialità, con Fluxus c’erano convergenze parallele e presenze nei convegni. Charlotte Moorman soggiornava spesso a casa mia, sempre coinvolgente ed esuberante. Per una decina di anni mi ha invitato per le mie poesie visive ai suoi festival Fluxus di New York. Nei manifesti di Maciunas ero l’unico a figurare sotto la voce “Poetry”.
Multimediali erano anche la Pop Art e il New Dada, che noi consideravamo limitrofi – senza disdegnare di proposito possibili liaisons dangereuses – ma non interdisciplinari. Allora ci attraeva il fatto che un pittore o un compositore potesse intromettersi attivamente in una poesia. L’idea del gruppo ci indirizzava più al luna park che al museo, più alla comunicazione in pubblico che al messaggio privato, più alla diffusione dell’arte negli stadi e sulle scatole dei fiammiferi che nelle gallerie o sulle pagine poetiche.

RL: C’era nel Gruppo 70 una partecipazione corale alla produzione, magari sulla base di un’idea originale dell’artista, su cui gli altri intervenivano? Penso ai gruppi cinetici, per esempio, che nascevano nello stesso spirito di quegli anni, in un clima culturale caratterizzato dalla voglia di uscire dall’individualità, dalla soggettività, da un’eco narcisistica che risuonava così spesso nella creatività dell’artista.

LP: Questo già a partire dal Futurismo, anche se c’era l’individualismo di Marinetti nel manifesto de “Le Figaro” e la coralità di Balla e Depero nel manifesto della “Ricostruzione futurista dell’universo”. Comunque ci sono gruppi più compatti e gruppi meno compatti in proposito. Nel caso nostro, si può riscontrare un’attenzione corale come antagonisti nei riguardi di una società di massa di cui usiamo i linguaggi per dirottarli, e un’attenzione individuale come cleptomani nei riguardi della parola, della fotografia o del fumetto, da individuare come mezzi al posto della tela e del pennello, della carta e della penna. Si esce dallo studio per andare in piazza.

RL: Tornando al clima di quegli anni, da una parte c’era una posizione avversa alle istituzioni e alla storia dell’arte, intesa anch’essa come un’istituzione, dall’altra c’era forse anche il tentativo, che si esprimerà più chiaramente alla fine degli anni ’60, di far confluire tutte le espressioni artistiche in un’unica grande esperienza. In fondo, quando tu hai parlato dell’andare a declamare le poesie in piazza, c’era dentro l’idea del coinvolgimento diretto del pubblico, dell’uso del corpo e della costruzione di un rapporto tra tutti i partecipanti. Seppure sono gli anni in cui arrivano dagli Stati Uniti gli happenings, essi erano già dentro la nostra tradizione d’avanguardia.

LP: Noi andavamo in piazza, per esempio al Festival dei due mondi di Spoleto, nel ’66, lo stesso giorno che Ezra Pound declamò le sue poesie, ma prospettando uno spettacolo che si chiamava Poesie e no: i nostri versi introdotti dalla sigla dell’Eurovisione, mischiati a canzonette, pubblicità e notizie lette dal quotidiano di quel giorno, ma capovolte di senso: il Vietnam aveva invaso la California e defogliava le sue foreste col napalm, e via dicendo… Certo che avevamo alle spalle le serate futuriste, Dada, il Cabaret Voltaire.

DB: Anche il laboratorio russo, secondo me, dove l’impronta politica era più forte. Dentro le prime serate futuriste c’era fondamentalmente la necessità di spezzare, ancora non c’era una precisa idea politica, così come dentro il Cabaret Voltaire. Negli anni Sessanta c’era invece forse un’ideologia. Eravate più vicini a quello che era accaduto in Russia negli anni tra il ’15 e il ’20, tra pre e post rivoluzione. Quello che mi sono sempre chiesta, rispetto all’idea di usare i linguaggi dei mass media per poi dirottarli, è quanto tutto questo abbia poi di fatto rafforzato certe modalità di gestione, che permangono, anzi, si sono rafforzate fino a divorarci. Lì avevate l’illusione che cavalcarli per dirottarne i contenuti potesse essere una strada veramente sovversiva…

LP: Questa domanda raccoglie diversi spunti che darebbero luogo ad altre domande. È vero che la battaglia di quegli anni ha portato ad esiti diversi da quelli che si potevano immaginare allora, forse agli antipodi. E i media hanno contribuito ad aumentare la confusione alimentando quella “espropriazione delle avanguardie” che a suo tempo ho anche denunciato e documentato. Perciò io parlavo in proposito di praticare il terrorismo critico, di ricercare altre imprevedibili modalità di combattimento, diffondendo false previsioni, suggerendo a tutti di andare al luna park e tornare invece al museo magari dalla porta di servizio, retrocedere formalmente per andare realmente avanti, sovvertire il menù e le portate.

DB: Come il tè di prima, che abbiamo preso dopo i pasticcini…

LP: Se vogliamo fare un parallelo con le usanze alimentari: quando la gente va dallo chef per l’apericena, io vado dalla zia per il rosolio e i savoiardi, quando la gente cerca i ristoranti a tre stelle io entro all’osteria per la trippa, la ribollita, i fagioli…

RL: Va bene, però vi richiamo all’ordine.

LP: Eravamo sempre in tema, comunque.

DB: Cosa salvare di quegli anni?

LP: Di quegli anni, dopo il ’68, salverei il segno dell’imprevisto. Quegli anni erano davvero imprevedibili sul piano sociale e per me anche su quello individuale. All’inizio dei Settanta mi hanno chiamato ad insegnare in due università, a Firenze e a Bologna, e non so ancora bene perché mi abbiano chiamato: le domande io non le ho mai fatte. La cattedra di Firenze, ad Architettura, impostata su temi interdisciplinari, l’aveva avuta prima Dorfles, poi Eco. Arrivo io, assai spaesato e con molte perplessità, ma pronto a mettermi in gioco. Lì comincio a leggere con gli studenti – compagni di strada – la città come supporto di svariati messaggi: manifesti pubblicitari e politici, insegne di negozi, segnaletica stradale, cartelli indicatori, scritte al neon, segni e graffiti murali, cantieri edili sfruttati per l’affissione, strutture per lavori in corso, intelaiature per il restauro di monumenti, striscioni: la “Pubbli-città”. A Bologna, al DAMS, inizio a occuparmi dei rapporti tra avanguardie e mass media, allora poco indagati. Mi accorsi che il problema non era quello di dare risposte ma suggerire ancora domande. Cercavo quegli allievi – compagni d’avventura – che erano propensi a fare ricerche. A loro non insegnavo quello che già sapevo, ma quello che mi domandavano, insegnavo a non vedere quello che vedono tutti gli altri, a vedere quello che tutti gli altri non vedono. Di quegli anni è ciò che salverei, oggi: la ricerca dell’imprevisto in ciò che ci stava, che ci sta, sotto gli occhi e che non avevamo, non abbiamo, ancora visto.

DB: Benissimo, torniamo indietro. Roberto voleva chiederti delle cose specifiche e io ho deragliato.

RL: Contrariamente a quello che di questi tempi si fa sempre più spesso, di decontestualizzare gli avvenimenti dal loro ordine storico, a me piace leggerli secondo un ordine cronologico, calandoli nel contesto storico e nel tempo storico. A tal proposito vorrei chiederti se per intellettuali e artisti, in particolare, che a quella data erano già avanti nel lavoro, il ’68 ha rappresentato un ulteriore momento di riflessione; se di fronte al movimento che contestava le istituzioni, essi hanno capito che avrebbero dovuto fare un passaggio ulteriore. Intendo dire se è possibile che solo in quel determinato momento sia stata acquisita la consapevolezza della necessità di una partecipazione corale alla rifondazione di un linguaggio e di un comportamento complessivi, del fatto che non fosse più una questione di letteratura, di musica, di teatro, ma che si trattava invece di prendere posizione di fronte al mondo. Credo che quella sia stata l’ultima utopia novecentesca, il pensare di costruire un linguaggio comune che fosse rifondativo… Solo più tardi l’estremismo e la crisi che esso ha innescato hanno messo in evidenza come quella fosse una strada senza uscita.

LP: Ma questo lo domandi a me o a un certo tipo di artista?

RL: Lo domando a te perché tu in qualche modo hai lanciato l’esca.

LP: Personalmente non ho avuto una grande adesione per il ’68: l’utopia è giusta, ma l’idea non solo non funziona, ma sta facendo il gioco della destra, come accade ora. Qualche amico ci è cascato; io sono uno che non solo guarda, ma cerca di vedere. Questo rapporto a cui tu accennavi fra passato, presente e futuro: per me nel presente c’è il passato, nel presente c’è il futuro. Io vedevo questa condizione come una perdita di tempo e in quel caso divento un “estremista moderato”, sono per il compromesso storico, per una sinistra riflessiva e pragmatica, preferisco essere l’Ulisse del Cavallo di Troia, anziché l’iroso e funesto Achille. Ulisse, secondo me, rappresenta il mito dell’uomo e dell’artista contemporaneo quando rifiuta l’idea della forza come violenta competizione, preferendo l’avventura vissuta con inventiva consapevolezza. Se vi ricordate, Ulisse non voleva andare in guerra, si fa trovare a seminare sale sul suo terreno fingendo di essere pazzo, tuttavia partecipa dignitosamente al conflitto e lo risolve con un’astuzia di cui si pentirà. Ulisse, da perseguitato dal destino, fa contrastati viaggi, da lucido concettuale s’inventa l’idea di Nessuno, da invidiabile edonista si gode il canto delle sirene, da improbabile marito ad alta fedeltà se la fa con Circe e con Calipso, che giunge perfino a offrirgli una melensa immortalità, per tornare dalla moglie e andarsene poi verso l’ignoto.

RL: In quegli anni si è manifestata pienamente l’idea che compito dell’avanguardia, della neoavanguardia, dovesse essere quello di costruire l’uomo nuovo, forgiato per i tempi moderni, e che l’artista, l’intellettuale, dovesse in qualche misura creare una sensibilità nuova, totale, indispensabile a quest’uomo per agire nella realtà. Da qui l’idea di una musica nuova, di un teatro nuovo, una poesia nuova.

LP: Io ho scritto un libro di versi, pubblicato da Mondadori nel ’64 con il titolo Nozione di uomo, che si apre con una poesia intitolata “Il presente passato” e si chiude con una poesia intitolata “Il presente futuro”: non solo, in quelle pagine ho anteposto l’uomo al poeta e all’artista, ma è un’idea mia, a cui non ha corrisposto una condivisione corale. Quel libro col suo titolo non avvinse il grande pubblico…

RL: Quando parlavi della poesia veicolata attraverso i mass media o attraverso la pubblicità, intendevi rendere una serie di concetti alla portata del pubblico, era un modo per raggiungere un pubblico più ampio.

LP: In realtà quello della poesia negli stadi o sulla scatola dei fiammiferi più che altro era terrorismo critico, e l’ho detto prima, come dire: “Intanto beccati questo!”… Ma tu come avresti risposto a questa aspettativa?

RL: Cercavo una conferma, un’ipotesi interpretativa. Se si legge la storia dell’arte, quello che la critica racconta negli anni ’60 e ’70, emerge l’idea della costruzione di un’arte che dovesse corrispondere all’homo novus; non è che si potesse mettere in mano, mettiamo, la Poesia Visiva a un uomo dell’Ottocento. Per cui ti chiedevo conferma se ci fosse una consapevolezza di questo. Tu mi hai detto, se ho capito bene, che non pensavi di costruire l’uomo nuovo, ma una serie di stimoli al cambiamento ce li mettevi.

LP: Per me l’importante è che la domanda, il problema, vengano posti bene. Per altro, il passato remoto e prossimo mi interessano come miniere, come giacimenti ricchi di potenzialità trascurate e che noi oggi potremmo sfruttare. La storia passata ci pone ancora domande che attendono risposte, ci pone problemi ancora da risolvere.
Nella successione delle battaglie storiche io so chi ha vinto, ma mi piacerebbe sapere cosa sarebbe successo se avesse vinto quell’altro: probabilmente aveva ragione quello che ha perso. Nelle battaglie culturali e artistiche spesso non ha vinto il migliore ed è il caso di riprendere in mano e portare avanti le proposte di chi ha perso. In italiano esiste la parola “vincitore”; l’opposto per me non è “vinto” ma “perditore”, colui che sa di perdere, e ci sono in proposito degli esempi magnifici, da Ettore a Che Guevara… Ma tanti sono nelle scienze e nelle arti i “perditori”, gli sfortunati antagonisti contrapposti a quelli che vincono sempre. Per esempio se io fossi uno sportivo, odierei la Juventus. Devi avere anche il gusto di saper perdere…

RL: La stessa cosa la provavo nei confronti non della Juve ma di Umberto Eco… immagino che tu potessi andare d’accordo con un personaggio così, con la sua scelta di occuparsi di linguaggio. Nel modo di approcciare al mondo, mi pare tu sia uno che si mette di fianco e guarda se stesso nella relazione con gli altri, in questo ci sento una vicinanza, almeno in parte, con il lavoro di Eco.

LP: Ho conosciuto Eco molto prima che si parlasse in modi ponderosi di semiotica, ai tempi del Diario minimo, un libro rigoroso e innovativo, ma anche divertente. E con Umberto, durante un convegno, un viaggio o all’università, ci si poteva divertire veramente. La semiologia tende a piacermi meno quando la sua articolata flessibilità si trasforma in macchinosa semiotica tendendo a fornire di un testo la rigorosa interpretazione. E io sono Contro l’interpretazione, per dirla col titolo di un libro di Susan Sontag, sono per la scorrevole semiologia di Roland Barthes a proposito delle nuove mitologie, sono per la disinvolta e lucida ricognizione che fa Michel Foucault sul quadro di Velázquez Las Meninas, un’opera strabiliante e intrigante perché lì all’improvviso ti accorgi di non sapere più se sei l’osservatore o l’osservato. Ed è l’avanguardia.

RL: È l’avanguardia, ma è anche quella cosa che criticavi all’inizio, che è l’ipertesto, che oggi potrebbe essere metatesto.

LP: Sì, detta in maniera pesante forse sì. Sei tu che guardi il quadro come sei abituato a fare o è il quadro che guarda te? Secondo me ci sono due tipi di arte, una transitiva e l’altra intransitiva: una che vuole che tu stia lì, fuori dalla porta, e l’altra che ti accoglie come ospite gradito, “Lector in fabula”. A me piace che il quadro, la pagina, mi facciano entrare dentro. Mi tengo lontano da quei romanzi che fin dal titolo prospettano le morfologie previste da Propp.

RL: In questo tuo piacere nell’essere giocoso con la parola, spesso anche irriverente rispetto alle idee consolidate, c’è una fiorentinità di fondo.

LP: Che è l’ironia, il sarcasmo, alla Cecco Angiolieri, che è la strategia di giocare chi ti gioca…

RL: Che viene usata negli anni ’60 per disinnescare certi processi.

LP: L’avanguardia da allora fa la poesia sulla poesia, il quadro che riflette su se stesso, quindi è esplicitamente concettuale. Dall’ipertesto al metatesto, come si è detto prima. Da allora io però ironizzavo già la poesia sulla poesia, ironizzavo già anche quello che stavo facendo, quindi ne prendevo le distanze, lo storicizzavo: io, in questo momento, sono qui, ma sono in gara, non sono al traguardo… Il critico, lo storico dell’arte può certamente fotografare quel momento, o quello dell’arrivo, o quello del podio, ma deve far sapere che la corsa è in corso.

Arte e Critica, n. 94, autunno 2019, pp. 68-76.

Daniela Bigi e Roberto Lambarelli
Daniela Bigi e Roberto Lambarelli