Quello che Anna Franceschini non ci dice

Madino con Bambonna è il titolo di un testo che Maurizio Calvesi dedicò a un curioso quadro di Magritte del 1932, Esprit de la Geometrie, esposto all’Attico – come recitava l’invito – la notte di Natale del 1976.1 Non era trascorso molto tempo dalla pubblicazione del suo Duchamp invisibile (Officina Edizioni, 1975), e per l’occasione redasse un contributo in cui tra le altre cose ribadiva come nell’opera d’arte si componga la relazione dell’uno e del tutto, ben simboleggiata dalla figura dell’androgino, “prediletto dagli artisti”, immagine per eccellenza della composizione degli opposti. In quella provocatoria immagine di Magritte, la rottura del meccanismo mimetico, ovvero la sostituzione e inversione dei volti del Bambino e della Madonna, generava una particolare riflessione su inganno e disinganno, o meglio, sul disvelamento dell’inganno.
Che si tratti dell’adozione programmatica di una visuale ermetica, o che invece ad agire sia solo la fascinazione per l’habitus enigmatico che ordiscono la pittura, la letteratura o il cinema di certi ambiti primo novecenteschi, fatto sta che la questione dell’inganno visivo torna sovente nei lavori di Anna Franceschini e si dipana dentro un silenzioso teatro oggettuale che viene di  volta in volta filmato e/o performato con la complicità di una sensibilità futuribilmente retrò.
Senza infatti mai dissimulare il proprio debito nei confronti della cultura visiva dei primi decenni del XX secolo, e mi riferisco soprattutto a quella cinematografica, l’attrazione provata dall’artista per il potere seduttivo dell’immagine, per le sue distorsioni, i suoi comportamenti cangianti, le sue ambiguità e proprietà depistanti, è divenuta sempre più esplicita, e al contempo anche sempre più criptica. Come se i suoi film, i suoi video, le sue performance, i suoi display divenissero via via più enigmatici. In realtà, forse sono semplicemente divenuti più esigenti. Impegnati, come sono, a distillare livelli di senso sempre più profondi all’interno di un registro di fatto molto sobrio.
D’altro canto, quell’idea di costruire trappole visive che potrebbe sembrare il frutto di una vezzosa impertinenza, in realtà è proporzionalmente più importante nel suo lavoro di quanto, giustamente, l’artista non dica, mentre le sue parole, lucide, calzanti, si dispiegano invece sicure a raccontare degli strumenti del fare, dei modi, degli omaggi… Come se soffermandosi ad esplorare la sua affinata e collaudata strumentazione tecnico-espressiva, ella possa proteggere una misteriosa visione delle cose.
“La verità c’è, ma è un po’ sullo sfondo”. È lei a suggerirlo.
Ho la sensazione sempre più precisa che lo sguardo aptico (nel senso in cui lo usano Deleuze e Guattari) di Anna sulle cose, ovvero quel valore tattile del suo indugiare visivo, con la camera, sugli oggetti, sui luoghi, sulle luci, sui corpi, sia il meccanismo che le permette davvero di celare, più che di svelare, i segreti delle cose. E ad essere ancor più celato è il significato che assumono – innanzitutto dentro di lei – gli insiemi-di-cose che rapiscono la sua fantasia, o la sua memoria.
Quanti veli troviamo nei suoi tanti film… Il loro aspetto è sempre irresistibilmente glam, ma quell’insistere sulla superficie delle cose ha un carattere così ammaliante che non può riferirsi alla sola superficie. Un po’ come per una avvenente Venere cinquecentesca, partorita in terra veneziana, mentre il suo autore leggeva i filosofici Dialoghi d’amore di Leone Ebreo…
Non sono certa che la visuale dalla quale pensare alla relazione di Franceschini con le cose sia quella Object-Oriented che ha spopolato nel mondo anglosassone, quella più in generale dei nuovi realismi, da quello analitico di Graham e compagni a quello continentale di Ferraris. Credo che questo suo rapporto si nutra di visioni tutt’altro che realiste, pur muovendosi con appassionata attrazione dentro il mondo degli oggetti.
Mi viene più facile pensare agli spiriti delle cose che voleva scolpire Leonardo Bistolfi, lo scultore piemontese simbolista che si interrogava, così come poi i Futuristi e diversi altri intellettuali e scienziati, su come rendere visibile l’invisibile. Una vera e propria interpretazione “elettrica” del mondo e della materia, che per altro aveva intessuto anche la preistoria e poi la storia del cinema.2
Credo dunque che la tradizione cui guardare sia un’altra. E alcune affermazioni dell’artista me lo confermerebbero, così come, tornando al cinema, alcuni suoi autori cult, per esempio Segundo de Chomón, o Georges Méliès, ma anche il fisico Joseph Plateau, con il suo fenachistoscopio – detto anche fantasmascopio o fantascopio –, al quale Anna ha dedicato una sorta di trilogia molto tempo fa, It’s about Light And Death (To Joseph Plateau), 2011.
Ma torniamo per un attimo alle cose.
In un bel saggio di una quindicina di anni fa, Remo Bodei scriveva: “Mantenendo le persone necessariamente sullo sfondo, scelgo di parlare soltanto degli oggetti ‘materiali’, quelli elaborati, costruiti o inventati dagli uomini lavorando elementi grezzi forniti dalla natura secondo specifici modelli, tecniche e tradizioni culturali. Il privilegiare la cosa rispetto al soggetto umano serve per altro a mostrare il soggetto stesso nel suo rovescio, nel suo lato più nascosto e meno frequentato”.3 Eccoci tornati al lato più nascosto e meno frequentato del nostro soggetto.
Di tutto questo l’artista è più che consapevole, sa che il suo desiderio costante di ri-animare le cose, come ripete di frequente, riguarda la triangolazione psico-visiva tra autore, cosa e osservatore, e sa anche che quel rianimare le cose ha a che fare con la coscienza, lavora sul piano del desiderio, attiva contenuti mnestici, di una memoria, per altro, tutta episodica, ossia di quel tipo che si fonda sull’esperienza diretta dell’individuo.
Senza contare, poi, che la memoria non possiamo pensarla come uno storage inerte di ricordi ma come un processo ricostruttivo, quindi attivarne dei comparti significa ogni volta riscrivere dei segmenti di una ipotetica storia personale o collettiva.
Questi suoi oggetti (sui quali, sulla scorta di Freud, potremmo leggere l’investimento di una forte carica libidica) vengono riattivati non solo grazie ai nuovi contesti e alle nuove compagini in cui vengono collocati, così come codificato dalla più canonica strategia surrealista, ma anche per “un moto meccanicamente indotto” (l’affermazione è dell’artista); essi diventano in qualche modo delle macchine, il cui motore, a ben guardare, sembra attivato dal desiderio sia di chi li realizza, sia di chi li guarda. Ripetono in modo ossessivo e infinito i loro movimenti, disilludendo qualsiasi attesa narrativa. Parlano di un’attesa infinita, di un desiderio dromotico inesauribile. A questo punto potrebbe spalancarsi davanti a noi il vasto territorio semantico delle macchine celibi, che di certo qui non è possibile esplorare. Sta di fatto che alcuni video e alcune performance (penso ad esempio ad Ancora tu, presso Frankfurt Am Main, Berlino, 2016) sembrerebbero funzionare proprio come macchine celibi o forse, meglio, come meccaniche celibi. E il movimento rotatorio infinito – che è quello della giostra, quello degli oggetti che levitano, quello delle mani portagioiello, ma anche quello dei pattinatori su ghiaccio – cui sono spesso assoggettati i suoi congegni, siano essi inventati di sana pianta o trovati in quei mirabolanti templi dell’artificio meccanico in cui Franceschini spesso si imbatte, è un movimento che all’interno delle riflessioni sulle macchine celibi viene tradizionalmente ascritto alla dimensione onanistica. Ci parla dunque di una solitudine, ci racconta di un tempo sempre uguale, e ineluttabilmente improduttivo.
Mi vengono alla mente, allora, Lyotard, ma anche di nuovo Deleuze e Guattari, che interpretano la macchina celibe di Duchamp in chiave antiproduttivistica, rilevando inoltre, questi ultimi, la sua opposta polarità rispetto alle macchine desideranti, vocate invece a indurre sempre nuovi desideri in ottemperanza al processo capitalistico.
E seguendo questa riflessione, ne viene fuori un’altra, legata al fatto che molti film di Franceschini indugiano a lungo su gesti o movimenti che danno vita, sostanzialmente, a delle immagini astratte. In parte lo dobbiamo alla fascinazione per la luce e per il movimento che è centrale in quel cinema delle avanguardie che l’artista ama rievocare (Moholy-Nagy ad esempio, ma anche Epstein, o Leger, certo Man Ray, o poi il nostro Veronesi), fa parte, diciamo, del suo background di studi e di passioni. Credo però si possa anche pensare ad una sorta di reazione a quell’unidimensionalità della quale parlava Marcuse, che oltre 50 anni fa già ci vedeva pericolosamente appiattiti dentro gli schematismi comportamentali indotti dal totalitarismo capitalista. Attraverso la costruzione di un personalissimo teatro dell’inutilità, sublimante (contro la de-sublimazione cui additava appunto Marcuse), Franceschini sembra assumere in qualche modo una postura polemica, sembra rivendicare il diritto alla polidimensionalità propria dell’individuo libero. E questo proprio mentre costruisce molti dei suoi set nelle vetrine delle maisons di moda, o quando allestisce le sue nature morte per poi filmarle, teatralizzandole; il tutto sempre giocato con ambiguità, con silenzio, con voluttà, con sullo sfondo il sentimento dettato da storie mai raccontate ma sempre fantasticate, suggerite (la ragazza lituana di The Diva who became an Alphabet, per esempio).
Storie di persone ma anche storie di oggetti, proprio come in un mondo che abbia perso la sincronizzazione con quello presente, che si sia sfasato, liberato. Un mondo in cui, sulle tracce surrealiste, si viva di stupore, di sorpresa, ossia con gli occhi e la mente ancora capaci di provare meraviglia…
E d’altronde è nella meraviglia, non priva di inquietudine, nel thaumazein, che si situa l’origine stessa della filosofia, è nella meraviglia che si toglie al mondo la sua ovvietà, che si passa, come ricorda Bodei, “dall’obvius all’abvius, dalla routine a ciò che conduce fuori dalla route”.4
Come in tanta produzione surrealista, inoltre, il lavoro di Anna Franceschini è in buona parte pervaso da una semantica erotica, che riguarda tanto l’attrazione tra i corpi quanto una più ampia modalità di leggere i rapporti tra le forme, animate o inanimate che siano, o di individuare le relazioni tra le forme e i luoghi, in un profondo desiderio di unione, in una potenziale infinita possibilità di appartenersi. Forse anche in una condizione di serendipità.
Questo esplicito erotismo potrebbe rimandarci a quel tentativo di “contemperare gli opposti” che è preoccupazione secolare delle pratiche alchemiche, a quella visione androgina che concepisce un principio femminile e un principio maschile alla costante ricerca di riconquistare l’unità. Non è la stessa Anna ad aver dichiarato che le sarebbe piaciuto dissolversi in un’opera al nero? Non è lei stessa a riferirsi all’umore della Melancholia? La Nigredo non corrisponde a quel primo stadio del percorso di individuazione che parte proprio dalla Malinconia? Quella fase di introversione psichica che prepara ai livelli successivi della conoscenza? (E poi, detto sottovoce, non è il cinema delle origini, così caro all’artista, notoriamente intriso di riferimenti alle trasmutazioni alchemiche della materia? E ancora: come non essere tentati di interpretare la sua abitudine a girare in pellicola per poi trasferire le immagini sul supporto digitale, questi passaggi di stadio della materia filmica?).
La solitudine, così schiacciante nei suoi lavori, risuona dunque di distanze più profonde; l’erotismo che pervade ogni opera si accende di istanze cosmogoniche.
Un’ultima considerazione: sul corpo vivo. Spesso il meccanismo strutturale dei suoi video, dei display, delle performance, prevede che ci sia almeno un momento, pur se in una dimensione temporalmente differita, in cui uno o comunque pochi corpi di donne interagiscano con gli oggetti, costruendo un teatro di relazioni tra animato e inanimato dentro il quale sembra dispiegarsi sempre la stessa visione, o forse la stessa necessità: una fusione latente, una celata ma serrata inseparabilità. Penso ai corpi e ai gesti delle sue performer che dialogano con le immagini in movimento o che si insinuano nelle installazioni oggettuali, cercando di assumere le proprietà del mondo inanimato, o le funzioni dei prodotti generati dall’artificio. Quei corpi divengono schermi da proiezione (The Diva who became an Alphabet, 2014), diventano protesi animate di grandi oggetti specchianti (Discolite n.3, 2018), coreografano arabeschi, intrecci di linee di forza (alla Giannina Censi, la straordinaria danzatrice futurista, per intenderci), dettati macchinici (alla Schlemmer). I movimenti di quei corpi penetrano la materia dei luoghi, si innestano nella struttura degli oggetti, incorporano i ritmi degli automi, diventano dei pattern. Tutto vive dentro una sorta di inevitabile e indisgiungibile compromissione con l’altro. Ne è esempio straordinario il tavolo di Mollino che diventa display per Cartaburro / Arabesco, da Almanac, e ne è testimonianza una dichiarazione recente dell’artista.
Gli elementi, così come i movimenti, perdono il loro valore univoco, autosufficiente, entrano in una sorta di costrutto plastico strutturalista in cui i legami tra i sintagmi diventano inossidabili ed eccedenti, dando vita a nuove invenzioni, nuove configurazioni.
Il vero appeal di tutto il lavoro di Anna Franceschini forse sta proprio nell’abilità di riangolare i piani di realtà, ribaltare i piani di profondità visivi e valoriali, nell’impregnare la superficie delle cose di un’ambiguità così magnetica, così ammiccante e patinata, da renderla irresistibile anche al più severo degli osservatori. Un appagante teatro dell’inutile che dopo una iniziale reazione contemplativa costringe lo spettatore alla mossa successiva: “in bilico tra il niente che avanza e il fare che erige barriere contro il nulla”.

Arte e Critica, n. 93, primavera 2019, pp. 46-55.

NOTE
1. In realtà il titolo esteso è Tragico Lapsus, Madino con Bambonna, pubblicato in occasione della mostra all’Attico del quadro di René Magritte l’Esprit de la Geometrie, il 24 Dicembre 1976.
2. Si confrontino in tal senso i contributi di Francesco Galluzzi sui rapporti tra Futurismo e Spiritismo, in particolare “Biologia degli spiriti dinamici. Implicazioni dello spiritismo futurista” in Cozzi, M. e Sanna, A., Schegge futuriste. Studi e ricerche, Leo Olschki Editore, Firenze 2012, pp. 57-70 e il saggio Tosi, V., Il cinema prima del cinema, Milano Il Castoro 2007.
3. Bodei, R., La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza 2009.
4. Ivi.

Daniela Bigi
Daniela Bigi