Marco Trulli: Questa conversazione nasce nell’ambito di un percorso laboratoriale che Sara Basta ha condotto per dove finisce la città, progetto di residenza artistica curato da Cantieri d’Arte durante il quale l’artista ha realizzato Acquadolce, un lavoro che ha visto la partecipazione attiva deə genitorə1 e dello staff educativo dell’Asilo Nido I Cuccioli di Viterbo. Come spesso accade, le opere di Sara Basta sono frutto di pratiche ed esperienze cooperative, in cui si creano spazi di possibilità attraverso il gioco e la relazione, dove il fare in comune è una pratica di mediazione e di reciprocità. Basta costruisce piccole comunità, marginali e divergenti che diventano ripari in cui praticare cura e ascolto per intessere nodi e legami.
Ogni giorno in cui porto al nido mia figlia, sulla vetrata riconosco il Manifesto della cura, cucito collettivamente durante il laboratorio da te e dalle educatrici del Nido di Viterbo.
Quelle parole ricamate definiscono un ecosistema di relazioni, una infrastruttura di collegamento e sostegno tra genitorə, bambinə, educatrici in un periodo delicato come quello dell’età infantile. Come sono risuonate nella tua esperienza di artista e di madre quelle parole?
Sara Basta: Nella mia esperienza quelle parole sono state la base su cui stabilire le relazioni che mi hanno permesso di sentirmi parte di un ecosistema, senza il quale non sarebbe stato possibile per me definirmi non solo come madre, ma anche come artista. Una volta diventata madre, se quell’ecosistema non avesse funzionato (ed è successo ogni volta che per qualche motivo si è interrotto), sarebbe stato difficile poter pensare di trovare il tempo da dedicare alla ricerca, sarei stata sopraffatta dalle priorità del lavoro di cura e di sussistenza. Ogni parola del manifesto mette in luce quella reciprocità che definisce una comunità, capace di sconfinare dal nucleo centrale familiare, verso una rete che si crea non solo per necessità, ma per il desiderio di costruire insieme. In quella rete io ho trovato il mio spazio e il potenziale per prendermi cura anche di me e del mio lavoro.
MT: Mi sembra evidente che la pratica artistica sia in qualche modo un flusso che transita dalla tua esperienza personale e si riversa nell’intenzione di costruire uno spazio accogliente e non competitivo, di cura, di ascolto.
Si tratta di una pratica densamente femminista di worlding, come direbbe Donna Haraway, ovvero mondeggiare, intrecciare relazioni per costruire legami, soggetti e oggetti, con-divenire.
«È importante capire quali argomenti usiamo per pensare altri argomenti; è importante quali storie raccontiamo per raccontare altre storie; è importante capire quali nodi annodano nodi, quali pensieri pensano pensieri, quali descrizioni descrivono descrizioni, quali legami intrecciano legami. È importante sapere quali storie creano mondi, quali mondi creano storie».2
Ecco, mi sembra importante rilevare che la pratica della cura non è soltanto un’azione di rimedio, ma è un modo di creare soggettivazione, divergenza, radicalità.
SB: Sono convinta che la cura non sia solo un’azione di rimedio e per questo alla cura affianco il desiderio e il piacere. Il desiderio mi sembra si combini più con una proiezione nel tempo, con una capacità di pensarsi attraverso l’immaginazione. Il piacere invece mi sembra riguardi più il presente ed è un esercizio da praticare quotidianamente, provare a «stare nel piacere» e non essere sopraffatta… Anche la crisi la collego alla cura, che in questo caso diventa supporto necessario, addirittura guarigione, una parola che prendo in prestito dalle donne della Red de Sanadoras Ancestrales del Guatemala3 e che si lega indissolubilmente alla cura della terra. Ma entrare in crisi è «stare nel problema» (sempre per citare la Haraway). La crisi, connessa alla cura, diventa qualcosa da ricercare, dunque, non un elemento negativo ma una risposta alle aspettative di una società che richiede una performatività costante.
MT: Credo che porsi da questa prospettiva, che considera la vulnerabilità come una condizione di cui tener conto, significa mettere in discussione le premesse stesse del sistema artistico, destabilizzare la performatività su cui si regge il sistema stesso.
Un sistema che ripete più o meno le dinamiche della società neoliberale che sembra criticare, fornendone spesso una critica spuntata.
Con il gruppo The Glorious Mothers4 state conducendo un percorso di riflessione che analizza proprio la condizione delle madri, e più in generale deə genitorə, nel mondo dell’arte, evidenziando come non siano contemplati in nessun modo il tempo e le esigenze per la cura deə figliə. In un sistema che spesso fonda i propri contenuti sulla ricerca di radicalità del pensiero e delle ricerche, si ripetono sistemi e modelli esclusivi e fortemente discriminanti. Per me, in un mondo che sembra andare completamente in crash, è sempre più raro e importante far coincidere quello che si dice con come lo si fa.
SB: Anche per me è fondamentale trovare questa coincidenza. Spesso mi stupisco di quanto la teoria sia lontana dall’esperienza e di quanto la radicalità sovraesposta, nelle mostre, nei public program, nei festival, rimanga circoscritta ai singoli eventi, senza ricadute nel tempo e al di fuori dai contesti in cui viene mostrata. Non credo si possa pensare a un dentro e un fuori al sistema dell’arte, come se fosse qualcosa di estraneo alla realtà, anche perché al suo interno si riproducono le stesse dinamiche. Con il gruppo The Glorious Mothers riflettiamo su questo sistema così escludente, in cui è fuori chi non può vivere costantemente in viaggio, chi non ha tempo di occuparsi delle pubbliche relazioni o chi non è dispostə ad autosfruttarsi (lavorando per compensi minimi quando non assenti e per un numero smisurato di ore). Come possono inserirsi in questo contesto le necessità e i tempi legati alla cura? Se lo spazio pubblico delle nostre città, i ritmi di lavoro e di vita, i compensi, perfino le mostre, fossero calibrati a partire dai bisogni deə bambinə, tutto convergerebbe in tempi e spazi a misura umana e più che umana.
MT: Torniamo al tuo lavoro, mi pare che ci sia una evoluzione interessante nella tua sperimentazione che lega soprattutto gli ultimi lavori, in cui attraverso un gioco costante di riferimenti e allusioni al mondo naturale e animale, ridisegni e riscrivi le modalità in cui ci relazioniamo con lə altrə e con la natura, con cui costruiamo connessioni.
SB: Nel lavoro Acquadolce, che hai citato all’inizio, sono partita da alcune suggestioni raccolte da elementi naturali diversificati. Ho raccolto immagini di semi, terra, mammiferi, fotografie di fiumi e delle ramificazioni che compiono nel loro corso. Le immagini servivano in una prima fase di sperimentazione collettiva per esplicitare un tipo di relazione. Volevo confrontarmi con una qualità molto precisa di interdipendenza che gli elementi naturali richiamavano e che poteva coincidere (visto il contesto dell’asilo nido in cui ci trovavamo) con il legame vissuto tra adultə e bambinə molto piccolə, non solo daə genitorə ma anche dalle educatrici e dal personale dell’asilo nido. L’acqua alla fine è stato l’elemento che più ci ha aiutato a rappresentare la qualità di una relazione indispensabile e costantemente in trasformazione. Usare l’acqua come simbologia è stato un modo per rimettere al centro una relazione che in quel momento era in crisi5 e messa alla prova da circostanze esterne. Ed è questo processo che ci ha portato alla scrittura del manifesto della cura.
Anche nel lavoro Archivio degli oggetti concavi6 le connessioni con gli elementi naturali sono state centrali, seppur in maniera meno esplicita. In questo caso sono partita da un testo di Ursula K. Le Guin, The carrier bag theory of fiction. Al centro del racconto c’è una borsa per raccogliere il cibo necessario a sfamarsi: semi, piante, bacche. La borsa è contemporaneamente uno strumento materiale e simbolico. È utile a conservare il cibo e allo stesso tempo rivela un posizionamento nel mondo e nella relazione. Nel racconto non ci sono armi né gesta eroiche. C’è un quotidiano che si dipana nella sua semplice ripetitività. A partire da qui, durante l’inaugurazione della mostra, ho proposto un’azione, provando a costruire uno spazio collaborativo in cui realizzare un’enorme rete. Aiutata da un piccolo gruppo e dal pubblico della mostra che ha potuto inserirsi, accompagnate da Valeria Befani, amica e tessitrice, che ci ha mostrato la tecnica dei nodi, abbiamo compiuto uno sforzo, ripetendo lo stesso gesto, che non è stato solo ripetizione, ma un tentativo di «formare alleanze ed entrare in concatenamenti: modificare ed essere modificate»,7 un tentativo di scegliere anche noi come posizionarci nel mondo.
MT: Nelle ultime evoluzioni della tua ricerca stai esplorando le teorie idrofemministe, secondo le quali il nostro corpo è interconnesso con altri corpi d’acqua. Mi racconti questa traiettoria di ricerca?
SB: La lettura di Hydrofeminism di Astrida Neimanis mi ha molto colpita perché mette insieme qualcosa che in realtà, se non fossi così forgiata dalla cultura occidentale, suonerebbe come un concetto semplice: la connessione tra individui umani e non. Tante femministe ne parlano e il pensiero ecologista ne è precursore. Ma Hydrofeminism è stato per me particolarmente importante per la capacità di parlare, non solo in maniera poetica, di questioni alte e basse, di questioni che riguardano gli individui e l’ambiente, degli scarti che produciamo con gli oggetti di cui ci circondiamo, così come con il nostro corpo, e di come tutti questi aspetti siano connessi e influenzino inevitabilmente sistemi apparentemente lontani tra loro. Da questo si potrebbero aprire riflessioni sulle migrazioni in generale, sugli spostamenti, sulle guerre, sulla contemporaneità. Ma nel particolare momento in cui l’ho letto, stavo riflettendo sull’esperienza di avere a che fare con ə neonatə e con quello che l’accudimento comporta: la manifestazione visibile di un ciclo continuo, di un viaggio di liquidi tra un individuo e un altro, fino alla costante produzione di scarti. Cosa potevo fare di quegli scarti? Era possibile trasformarli in pittura?
Da qui è nata la Iuno Tellus,8 una figura non so se umana o animale dalle cui mammelle fuoriesce un liquido lattiginoso composto di terra.
Le pratiche collaborative di Sara Basta interrogano le relazioni, diventano ritualità condivise nella misura in cui generano una risonanza, «ovvero una dinamica di reciprocità entro cui l’opera viene realizzata».9 La trasformazione delle energie messe in campo dai singoli partecipanti misura la dimensione trasformativa di questi spazi collaborativi, la forza immaginifica e terapeutica di un tempo e un luogo fondati sulla cura di sé e dellə altrə, per ricucire immaginari dolci e divergenti.
Arte e Critica, n. 99, inverno – primavera 2023/2024, pp. 93-95.
1. Per la scrittura di questo dialogo abbiamo scelto di utilizzare principalmente la ə al posto dei pronomi maschili e femminili, per una forma inclusiva e non binaria [n.d.a].
2. D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, NERO editions, Roma 2019, p. 27.
3. G. Marchese, Tzk’at – Red de Sanadoras Ancestrales, “Oltre la cura: difesa e recupero del territorio corpo-terra”, in M. Fragnito, M. Tolla (a cura di), Ecologie della cura. Prospettive trans-femministe, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2021.
4. The Glorious Mothers è un gruppo di artiste, prevalentemente visive, composto da Sara Basta, Cristina Cusani, Grossi Maglioni (Francesca Grossi e Vera Maglioni), Mariana Ferratto, Caterina Pecchioli, Dafne Salis e Miriam Secco.
5. Il progetto Acquadolce è intervenuto in una fase di interruzione e spostamento del servizio nido comunale e ha previsto un ciclo di incontri tra genitori-trici e staff educativo per costruire momenti di collaborazione creativa e scambio.
6. Progetto presentato all’interno della mostra collettiva Il giardino libernautico a cura di Elena Bellantoni in collaborazione con Benedetta Monti e Nicolò Giacomazzi, presso la Fondazione Baruchello di Roma (15 giugno – 30 settembre 2022).
7. J. Bennet, Materia vibrante. Un’ecologia politica delle cose, Timeo, 2023.
8. L’opera è stata realizzata per Iuno Commission, un invito a un’artista di base o di passaggio a Roma a realizzare un’opera che dia un’immagine a Iuno, a partire da una riflessione sulla figura insieme ctonia e celeste di Giunone (https://www.iunoiuno.it/).
9. A. Desideri, Comunità divergenti e pratiche artistiche di cura. Tre esempi, in «roots-routes.org» (https://www.roots-routes.org/comunita-divergenti-e-pratiche-artistiche-di-cura-tre-esempi-di-arianna-desideri/).