“Comunque la si incontri, la bellezza è sempre un’eccezione, sempre a dispetto di.”
(John Berger, Perché guardiamo gli animali?)
Nel lavoro di Irene Fenara gli aspetti fisici e concreti legati ai materiali utilizzati e l’elaborazione concettuale si bilanciano in una indagine sulla percezione della realtà e sulla sua rappresentazione attraverso le immagini. Le sue opere nascono da intuizioni spontanee e si formalizzano esprimendo la sublime necessità di un approccio che non si può ottenere di proposito, ma che scaturisce da una intelligenza emotiva.
Photo from surveillance camera è una ricerca che l’artista porta avanti dal 2016 e che prende forma in diversi medium, dalla stampa su carta di grande formato ai libri, fino all’uso di Instagram, dove pubblica regolarmente screenshot tratti dalle telecamere di sorveglianza. In quest’ultimo progetto, il tema del controllo si amplifica in numerose sfaccettature, rendendo complice l’osservatore nell’ossessione del controllo che più o meno inconsciamente si manifesta durante la fruizione del social network, luogo di autoaffermazione, di autorappresentazione e controllo appunto dell’identità apparente di se stesso e degli altri.
Questo progetto si colloca in una posizione intermedia tra l’inquietante e distopica reversibilità del rapporto tra osservatore e osservato che caratterizza i sistemi di sorveglianza e la poetica rappresentazione della natura effimera dell’immagine amplificata dalla rete da cui è pescata e reinserita.
Photo from surveillance camera sono immagini che esistono nel mondo sebbene siano lasciate a se stesse, caratterizzate da una natura apparentemente asettica e spersonalizzata. Nel flusso continuo della registrazione, la telecamera di sorveglianza esprime tutta la sua sconfinata noia esistenziale; Fenara raccoglie e seleziona immagini che rivelano uno sguardo invece desideroso di cogliere ciò che è oltre l’immagine stessa. Troviamo uccelli che si riposano durante le migrazioni e rapaci appostati in attesa di una preda, come in 21st Century Bird Watching (dal 2016, serie fotografica), ma anche paesaggi sublimi o assurdi dettagli apparentemente privi di senso. Nel libro Who Needs Eyes When You Have Sapphire Crystal Lenses? (2018, libro d’artista, 168 pagine) Fenara pone l’attenzione su quegli aspetti della natura tutta che fluiscono incessantemente lontano dal nostro sguardo ma che nella totale assenza di intenzionalità esprimono un’intensa carica poetica: come se la poesia esistesse oltre la capacità dell’uomo di coglierla.
In alcuni lavori, ciò che emerge con forza è la vulnerabilità dell’individuo di fronte a una tecnologia che può seguire delle logiche autonome. In Struggle for Life (2016, video digitale, 19’52’’), ad esempio, l’artista interviene direttamente sul sistema di sorveglianza dando il comando alla telecamera di inquadrare il cielo; dopo pochi istanti, le impostazioni di default del sistema riportano l’inquadratura verso terra, verso l’oggetto del controllo. In questo continuo alternarsi tra la spinta verso l’alto e la ricaduta verso il basso si fa evidente ancora una volta il desiderio di andare oltre l’immagine attraverso un processo poetico, come spiega l’artista: “l’impossibilità di tenere lo sguardo fisso al cielo riflette la difficoltà di tenere vivi i grandi sogni e continuare a credere in essi.”
In Supervision. Photo from surveillance camera (2018, stampa su carta blue back, 300×600 cm) la presenza scultorea della stampa digitale sembra invadere lo spazio del reale. L’immagine questa volta sembra un omaggio alla grande pittura astratta, la dimensione coloristica è assolutamente predominante rispetto a qualsiasi speculazione concettuale, non ci si interroga più sull’origine dell’immagine, si rimane esterrefatti dalla monumentalità della stessa. Si tratta di una stampa digitale su lunghe strisce di carta da affissione nella quale per paradosso l’estetica della cartellonistica è annullata: l’immagine ritrova la sua consistenza reale attraverso un semplicissimo espediente formale, l’accenno alla piega del foglio che ricade a terra. Un semplice gesto che fa sì che la presenza prevalga sull’essenza, che l’immagine come elaborazione del cervello, umano o artificiale, trovi il suo spazio nell’ambiente abitato dall’uomo.
Qualcosa di simile accade con Supervision (2018, stampa digitale su carta blueback, 300×600 cm), presentata da BACO a Bergamo qualche mese prima, ma questa volta, entrando nella stanza, la presenza fisica della grande stampa dai toni psichedelici è amplificata da una luce particolare. Si avverte una lieve alterazione atmosferica, ai vetri delle finestre è stata applicata una pellicola iridescente che delicatamente riverbera in tutta la stanza le predominanti cromatiche dei toni acidi dei rosa e dei verdi limone della stampa a tutta parete. Riflettendo sugli errori di decodificazione del colore del sistema digitale, Fenara riporta l’attenzione a come l’occhio umano, osservando fuori da quella stessa finestra, veda alterati i colori del cielo e del paesaggio.
Nella mostra personale al Kunst Meran del gennaio 2019, l’artista ripropone Megagalattico (2017, installazione video a quattro canali), presentato per la prima volta nel 2017 da Gelateria Sogni di Ghiaccio di Bologna. In entrambi i casi, immediatamente si ha l’impressione di entrare in una galassia intermittente, in cui sembra di poter intuire una geometria ordinatrice. L’intermittenza di piccole fonti luminose disperse nel buio cosmico è improvvisamente interrotta da un bagliore, una luce si è accesa nella stanza di controllo del server svelando il mistero che si era creato fino a qualche minuto prima. Viene subito in mente come la tecnologia alimenti le fantasticherie intergalattiche, come ogni nuovo strumento permetta di proiettare i nostri desideri di conoscenza su un dato oggetto e come questi in alcuni casi possano sfociare in una smania di vedere, controllare, possedere.
Ma svelare il trucco che sta sotto è un gesto di fiducia nei confronti dell’osservatore o dell’uomo più in generale, sulla sua capacità di continuare a ri-vedere la poesia.
Forse il lavoro in cui la coincidenza e la congruenza tra la forma fisica e la proiezione del pensiero sono più immediati è Termia (2014, polaroid e gesso), frutto di un’intuizione: in quel momento Fenara stava lavorando sulla fotografia come strumento di misurazione dei rapporti interpersonali e si accorge che lo strumento meccanico che aveva tra le mani non era poi così stabile come pensava. Fotografa prima alcuni oggetti e successivamente il muro bianco del suo studio in diversi momenti dell’anno, rilevando che le foto scattate d’estate assumevano naturalmente una tonalità rosata mentre quelle scattate in inverno avevano una tonalità tendente all’azzurro, fissando cioè la temperatura emotiva del suo tempo e del suo luogo di lavoro.
In Termia e in Megagalattico, sebbene così diversi tra loro, prende forma quell’ipervisualità a cui tende tutta la sua ricerca. Nel primo, lo strumento trattiene una traccia di un dato fisico che l’occhio non sarebbe in grado di cogliere, la temperatura, riportando l’immaginazione dell’osservatore nella dimensione ambientale originaria dello studio (si ha quasi la sensazione di percepire con il tatto quello stesso luogo abitato dall’artista in cui si potrebbe anche non essere mai stati prima). Nel secondo, l’osservatore continua a pensare a una volta celeste, a immergersi nel fluire di uno spazio cosmico, seppur di nuovo il trucco gli sia stato svelato. Come in un gioco di cui si conoscono le regole per poter dare forma a una realtà immaginata, così l’ipervisualità diventa la capacità di vedere oltre la mera tangibilità del reale.
Arte e Critica, n. 94, autunno 2019 / 1 novembre 2019, pp. 96-99.